giovedì 17 ottobre 2019
Uno studio di Altimari e Rosina dell’Istituto Toniolo evidenzia i pericoli per il nostro sistema-Paese. Gli attuali 30-34enni nel 2027 non saranno sufficienti a sostituire la generazione precedente
Una ragazza cerca lavoro. Il tasso di occupazione dei giovani è inferiore alla media europea: solo il 67,9% dei trentenni italiani lavora contro il 79,1% europeo (Ansa)

Una ragazza cerca lavoro. Il tasso di occupazione dei giovani è inferiore alla media europea: solo il 67,9% dei trentenni italiani lavora contro il 79,1% europeo (Ansa)

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Un grande vuoto nel mondo del lavoro, un blocco nel motore dello sviluppo del Paese. È il "buco nero nella forza lavoro" che rischia di crearsi da qui a meno di 10 anni per la combinazione di tre fattori: il declino demografico, anzitutto, con la generazione attuale dei 30-34enni italiani che sono 1 milione in meno rispetto ai 40-44enni, la fascia centrale del sistema produttivo, di cui i più giovani dovrebbero prendere il posto. E poi due difetti quasi congeniti del nostro sistema: la difficoltà a far incontrare domanda e offerta di lavoro con un’adeguata formazione e quella di permettere una buona conciliazione tra impegni familiari e professionali.

A guardare avanti e mettere sull’avviso del possibile implodere del nostro sistema economico, soprattutto per la mancanza di persone, è una ricerca dell’Istituto Toniolo curata dal demografo Alessandro Rosina, coordinatore scientifico dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo, e da Mirko Altimari, docente di Diritto del lavoro della facoltà di Economia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. I dati di partenza in effetti sono chiari e impietosi. L’Italia sconta più di altri gli effetti congiunti dell’invecchiamento della popolazione, della forte riduzione delle nascite, assieme a un minore tasso di occupazione dei giovani e a una loro più scarsa istruzione e formazione. Se infatti nell’Unione Europea si registra una diminuzione del 7% della popolazione dei "giovani adulti" (30-34 anni) rispetto alla classe oggi all’apice della vita lavorativa (40-44 anni), nel nostro Paese il calo è pari al 26%. In termini assoluti i giovani adulti sono 1,1 milioni in meno rispetto alla generazione precedente. Si potrebbe pensare però che essendo relativamente pochi siano in una posizione di vantaggio nel mercato del lavoro. E invece è il contrario: sono meno occupati di quanto non fosse la generazione precedente 10 anni prima – gli attuali 40enni infatti quando erano 30enni avevano un tasso di occupazione del 74,8% contro l’attuale 67,9% – e se si guarda alla media europea il confronto appare impietoso con quasi 12 punti di distacco (67,9% contro 79,1%). Da qui l’allarme dei ricercatori: «In assenza di politiche di rafforzamento demografico e potenziamento del tasso di occupazione (portandolo su livelli però che non hanno precedenti in Italia) è molto verosimile che nei prossimi dieci anni possa ridursi drasticamente il numero di persone nella fascia di età più rilevante per i processi di crescita del Paese».

Lo studio prende quindi in esame tre ipotesi: lo scenario zero in cui non intervengono fattori esterni come una consistente immigrazione nella fascia d’età indicata e il tasso di occupazione resta sui livelli attuali. L’esito in questo caso sarebbe piuttosto drammatico per il nostro sistema-Paese perché già nel 2027 gli occupati nella fascia d’età 40-44 sarebbero appunto 1 milione in meno, un calo del 30% rispetto agli attuali. Un vero "buco nero" negli uffici e nelle fabbriche d’Italia, un motore produttivo senza un cilindro. Lo scenario 1, invece, è più ottimistico e prevede da un lato l’arrivo di un certo numero giovani da altri Paesi e dall'altro una crescita del tasso occupazionale almeno al livello della generazione precedente. Anche in questo caso, però, il calo prevedibile di lavoratori sarebbe problematico: meno 600mila in termini assoluti pari a una riduzione del 20%. Lo scenario 2 preso in esame è quasi "fantascientifico", perché calcola che per mantenere lo stesso numero di lavoratori tra una generazione e l’altra il tasso di occupazione degli attuali 30-34enni dovrebbe schizzare fino al 95% cioè la piena occupazione, condizione che non si verifica in nessuno degli altri Paesi europei e che necessiterebbe di azioni forti sia sul sistema dell’istruzione-formazione sia su quello delle politiche attive del lavoro.

«Tutto questo evidenzia come le possibilità di crescita economica (di produzione di benessere più generale, compresa la sostenibilità del sistema sociale) siamo messe a rischio, in modo sensibilmente maggiore che in passato, dalla riduzione demografica della popolazione in età centrale lavorativa e dagli attuali bassi tassi di occupazione della generazione che sta entrando in tale fase della vita – sottolineano Rosina e Altimari –. In un Paese che già mostra da tempo bassa capacità di crescita, bassa competitività internazionale, bassa produttività e alto debito pubblico». E qui si tocca un altro paradosso fondamentale. Non solo i giovani sono pochi, ma c’è uno «scarso investimento qualitativo sulle nuove generazioni» fra le quali il tasso di Neet (non al lavoro né a scuola né in formazione) raggiunge il record europeo del 29%; c’è una bassa incidenza di laureati (26,9% rispetto alla media europea del 39,9%) e per paradosso questi ultimi sono poco valorizzati dal sistema produttivo. Tanto che serpeggia l’incertezza: ben il 34,9% dei 30-34enni indagati dal Rapporto giovani dell’Istituto Toniolo pensa che a 45 anni non avrà un lavoro.

Se questi sono i dati strutturali negativi siamo condannati o è possibile uscirne? Come è ovvio la questione demografica non è suscettibile di cambiamento significativo anche al netto della possibile immigrazione. La ricerca dunque indica tre piste di intervento tra loro interconnesse. La prima riguarda il miglioramento delle politiche attive del lavoro per far incontrare meglio domanda e offerta, accompagnando realmente i giovani in un percorso di riqualificazione e valorizzazione. La seconda tiene conto del forte impatto delle nuove tecnologie cercando «di mettere in connessione antropologia delle nuove generazioni e tecnologia avanzata nei processi di produzione e innovazione, compensando così la riduzione della forza lavoro con un aumento della produttività e creazione di nuova buona occupazione più che distruzione di vecchia occupazione», spiegano Altimari e Rosina. La terza, non meno importante, ha a che fare infine con una migliore conciliazione tra tempi di cura familiare e di lavoro. In questo caso, sono necessari da un lato un forte investimento nei servizi alla famiglia (asili, baby sitter) ma anche in un approccio culturale più aperto (concessione a richiesta di part-time reversibile, maggiori congedi di paternità) da parte delle imprese e di tutti gli attori sociali per determinare un risultato immediato in termini di maggiore occupazione, in particolare femminile, e maggiore sicurezza economica delle famiglie. In prospettiva, ciò può determinare una riduzione degli squilibri demografici attraverso una ripresa della natalità.

L'inverno demografico comincia a "congelare" l’intero sistema-Paese – l’apparato produttivo, il welfare, l’innovazione e l’intrapresa imprenditoriale – e rischia di bloccarne lo sviluppo già nei prossimi 10 anni. E in progressione, i dati delle nascite delle generazioni successive sono ancora peggiori. Occorre cominciare a intervenire da subito per evitare che l’inverno del Paese diventi una vera e propria glaciazione.


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