Diritti umani delle persone migranti, c'è un giudice a Copenaghen
sabato 18 dicembre 2021

C’è un giudice a Copenaghen. Non sempre, dunque, il vento spira a favore del pugno duro nei confronti dei migranti e dei loro diritti. Misure che piacciono a un pezzo di opinione pubblica, e magari fruttano in termini elettorali, possono trovare l’opposizione di forze della società civile, voci autorevoli come quella del Papa e anche il rigoroso intervento del potere giudiziario. Stavolta, confermando che la difesa dei diritti umani spesso confligge con nazionalismi e chiusure pregiudiziali, un esempio eloquente arriva dalla Danimarca. Paese anomalo, perché collocato nel quadrante scandinavo, un’area di solito identificata con un alto grado di sensibilità umanitaria, ma impegnato da alcuni anni in un’escalation di misure restrittive nei confronti degli immigrati e soprattutto dei richiedenti asilo.

La notizia è che la Corte Suprema danese ha condannato l’ex ministra all’Immigrazione Inger Stoejberg a 60 giorni di reclusione, per aver separato forzatamente nel 2016 ventitré coppie coniugate di giovani che avevano chiesto asilo.

Si trattava di persone minorenni, e quindi secondo la ministra la drastica misura serviva a difendere le ragazze dai matrimoni precoci. Tra gli sposi separati, anche una sposa incinta di 17 anni. Dopo qualche mese, va ricordato, la norma venne però cassata come incostituzionale. La ministra non militava in un partito xenofobo, ma nel Venstre, partito di area liberale. Faceva però parte di un governo di coalizione, sostenuto dal Partito del Popolo Danese che esprime posizioni drastiche in materia di immigrazione e asilo.

Lo stesso governo, e la stessa ministra, avevano sollevato scalpore varando una norma che sequestrava beni personali e gioielli alle persone che avevano chiesto asilo in Danimarca, per coprire i costi del loro mantenimento e delle procedure burocratiche.

Due le riflessioni che il caso Stoejberg solleva.

La prima riguarda il merito. La Danimarca aveva già adottato alcuni anni fa un divieto degli ingressi nel Paese per matrimonio alle persone di età inferiore ai 24 anni, danneggiando così anche la libertà di sposarsi degli stessi cittadini danesi. Il paternalismo autoritario sciorinato dalla ministra non era quindi del tutto estemporaneo, ma si collocava nella scia di 'guerre culturali' combattute sulla pelle delle persone concrete. In questo caso, si pretendeva di proteggere le giovani donne da matrimoni indesiderati, perseguendo in realtà l’obiettivo di contrastare l’immigrazione, di comprimere i diritti degli immigrati, di dipingere come arretrate e patriarcali le loro matrici culturali. Anche quando sono in gioco problemi eticopolitici seri, come quello dei diritti delle donne e dei matrimoni troppo precoci, invece di prendere la strada un po’ più complessa dell’educazione e dell’integrazione sociale, attraverso questa impostazione si tenta di far credere che si possa risolvere la questione con la mannaia dei divieti e con il muro della limitazione dei diritti più elementari.

Nel caso della ministra Stoejberg, intervenendo contro l’esito finale, un matrimonio regolarmente celebrato che ha già dato vita a una nuova famiglia.

La seconda riflessione riguarda l’equilibrio tra i poteri. I nazional-populismi fanno spesso appello al voto popolare come a un’investitura che consente ai governi e alle loro maggioranze parlamentari di disporre di poteri pressoché assoluti, e segnatamente di poter disattendere princìpi fondamentali.

Un ruolo attivo della magistratura a tutela dei valori costituzionali, delle convenzioni internazionali e quindi dei diritti umani fondamentali è più che mai necessario. Ma insieme è irrinunciabile una vigilanza da parte della società civile, affinché i diritti umani inalienabili, come tali non limitabili da cittadinanze e confini, rimangano un faro per tutti.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI