martedì 6 aprile 2021
La vicenda di Harry e Meghan, dall’addio fino alla recente denuncia di razzismo a Corte, sta scuotendo Buckingham Palace. Ma la Regina rimane sempre amata
La regina Elisabetta (94 anni) con il figlio ed erede Carlo (72 anni)

La regina Elisabetta (94 anni) con il figlio ed erede Carlo (72 anni) - Chris Jackson/Handout via Reuters

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Più di un anno fa, appena due giorni dopo l’annuncio che i duchi di Sussex, il principe Harry e la consorte Meghan Markle, avrebbero detto addio alla casa reale britannica per una vita “più tranquilla” e finanziariamente “indipendente” negli Stati Uniti, a ottomila chilometri di distanza da Buckingham Palace, l’Economist pubblicò un articolo in cui profetizzava che l’operazione avrebbe rappresentato un “grave pericolo per la monarchia britannica”. Più spinoso e destabilizzante persino dell’abdicazione di Edoardo VIII, che abbandonò il trono nel 1936 per sposare l’americana Wallis Simpson, o dell’intervista in cui Diana raccontò nel 1995 del “matrimonio troppo affollato” in cui si era trovata col principe Carlo, alludendo per la prima volta in pubblico alla relazione del marito con Camilla Parker. I Sussex, era la premonizione, diventeranno una sorta di multimilionario “marchio globale” da rendere costantemente visibile e attraente, come impongono le logiche del capitalismo più “rapace” e “moderno”, anche a costo di possibili “rivelazioni di tipo razziale e sessista” sulla famiglia reale. Lo scossone provocato nelle scorse settimane dalla clamorosa intervista a Oprah Winfrey in cui l’ex attrice afroamericana, sostenuta da Harry, ha denunciato la “preoccupazione” dei reali britannici su “quanto sarebbe stata scura” la pelle del suo bambino, Archie, quando sarebbe nato, fa pensare che qualcosa di vero, nell’intuizione di Adrian Wooldridge, possa esserci.

L'analisi spiegava, in sostanza, che la bella attrice californiana, 39 anni, agguerrita femminista nonché convinta oppositrice dell’ex presidente statunitense Donald Trump, potrebbe far vacillare l’antica monarchia britannica, baluardo di tradizione e conservatorismo dai tempi di Egberto il Grande, re di Wessex, contrapponendogli un modello sociale ed economico progressista ispirato, oltre che dai “mantra” della cultura liberal, dal capitalismo spinto di stampo hollywoodiano. È così, come scriveva Carl Marx, che “tutto ciò che è solido si dissolve, tutto ciò che è sacro viene profanato”. Eppure, non si direbbe che il capitalismo abbia mai rappresentato un problema per i reali, neppure durante gli anni duri dello sviluppo di età vittoriana. Anzi. Come lo scrittore Walter Bagehot spiegava già nel 1867 in The English Constitution, il ruolo della monarchia britannica è persino favorirlo, nella migliore delle accezioni, agendo come collante tra le diverse classi sociali o distraendo le masse con mirate iniezioni di romanticismo e mistero.

L'essenza della monarchia britannica, in fondo, continua a essere proprio questa anche oggi: un’istituzione dedicata a promuovere l’unità nazionale e, come sottolinea Robert Lacey, consulente per la serie Netflix The Crown, il “buon costume”. Al di là delle formalità e dei cerimoniali, per qualcuno ormai inutili e antiquati, o dell’accento a tratti arcaico dell’inglese parlato a corte, Elisabetta II, 95 anni il prossimo 21 aprile, sul trono da 68, rappresenta per i cittadini del Regno Unito un punto fermo, un richiamo continuo (e apolitico) all’unità nazionale. Soprattutto nei momenti di difficoltà come quello della pandemia in corso. Il rarissimo messaggio televisivo con cui lo scorso 6 aprile la sovrana ha incoraggiato i sudditi ad affrontare “insieme” la sfida del Covid, evocando suggestioni della Seconda Guerra mondiale (“We will meet again”, come cantava Vera Lynn), è stato seguito da 24 milioni di cittadini.

Come previsto dalla (non scritta) Costituzione britannica, esecutivo e Parlamento esercitano il loro potere su “prerogativa reale” ma si tratta di pura formalità, perché la regina, come si usa dire, “regna ma non governa”, limitandosi a ratificare le leggi approvate a Westminster. Come amava ripetere Winston Churchill, “la monarchia è straordinariamente utile: quando si vincono le battaglie la gente proclama ’God save the Queen’, quando si perdono fanno cadere il primo ministro”. L’influenza politica di Buckingham Palace è descritta al massimo come una sorta di lobby, soprattutto negli ambienti liberal in cui trova sempre più spazio anche il dibattito sul presunto razzismo di Churchill. Il mese scorso, il Guardian ha tirato fuori una serie di documenti rimasti per anni sepolti negli archivi nazionali per spiegare come, nel 1973, i consulenti legali dei Windsor avrebbero fatto pressione sui ministri per modificare la legge sulla trasparenza finanziaria che avrebbe potuto rendere noto il reale ammontare del patrimonio di Elisabetta. Argomento ghiotto per i repubblicani in agguato, sempre pronti a puntare il dito contro gli inutili privilegi della ricchissima aristocrazia britannica e contro i costi esorbitanti di cui i cittadini devono farsi carico per “mantenere” la famiglia reale. Si parla di circa 70 milioni di sterline l’anno, cifra stellare, senza dubbio, che tuttavia gli esperti dicono venga bilanciata dai ricavi, altrettanto straordinari, legati agli eventi e al turismo generato dalla “ditta Windsor”.

I sondaggi rivelano che il gradimento dei britannici nei confronti della Corona è in lenta discesa: nel 2011 era al 75%, oggi è al 63%. È per questo che Buckingham Palace, soprattutto dopo la morte di Lady D., si è lanciato in una profonda operazione di ristrutturazione della monarchia, come del resto è avvenuto anche in altre case reali d’Europa. I membri della famiglia Windsor hanno incrementato le apparizioni in scuole pubbliche, associazioni di volontariato ed enti di beneficenza. Elisabetta si è persino prestata a girare uno spot pubblicitario con Daniel Craig nelle vesti di James Bond per promuovere le Olimpiadi del 2012. Oltre alle manovre di facciata c’è stato anche un ritocco di sostanza. Una riforma del 2013 ha rottamato una norma del 1701 introducendo il principio che nell’ascesa al trono non debba essere data priorità ai maschi. Accantonata anche la legge secondo cui la corona è proibita a coloro che sposano un cattolico.

L'arrivo a corte prima della borghese Kate Middleton, moglie del principe William dal 2011, poi dell’attrice afroamericana Meghan Markle, divorziata, convolata a nozze fiabesche con Harry nel 2018, amatissima soprattutto dalla generazione Millenial, hanno confermato la determinazione della Corona, su cui grava l’alone di un passato coloniale e imperiale, a “convertirsi” al nuovo senza rinunciare all’aplomb regale, ammaccato un po’ anche dallo scandalo a sfondo sessuale che ha visto protagonista il principe Andrea, amico del miliardario pedofilo Jeffrey Epstein. Sarà il tempo a dire se la via imboccata abbia segnato o meno l’inizio di una monarchia davvero moderna. L’apertura dei palazzi reali alla Markle, che qualcuno dice abbia ambizioni politiche sulla Casa Bianca, potrebbe rivelarsi, certo, un pericoloso errore ma, a voler vedere il bicchiere mezzo pieno, anche una lezione da cui imparare. Dal punto di vista politico, qualcuno teme che l’affaire Sussex possa essere particolarmente destabilizzante all’estero, o meglio, nei 16 dei 54 Paesi del Commonwealth, tra cui Canada, Australia e Nuova Zelanda, di cui Elisabetta è capo di Stato. Perché, ci si chiede, queste nazioni dovrebbero continuare a rimanere nell’orbita di un’istituzione simbolica e obsoleta? Al momento, tuttavia, i margini per una riforma costituzione in questi Paesi sono strettissimi, se non nulli. Se ne riparlerà, probabilmente, quando la BBC annuncerà in un messaggio in codice la morte della regina Elisabetta: “London Bridge is down”.

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