mercoledì 29 luglio 2020
La necessità di un vaccino in tempi rapidi ha spalancato le porte alle sperimentazioni condotte infettando persone volontarie. In 32mila hanno risposto. Corpi in vendita?
Vaccino, testare il virus su soggetti sani è il nodo etico

Reuters

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La nuova normalità di Covid–19 ha riportato al centro dell’attenzione la “questione vaccini” con tutte le sue problematiche, molte nuove o comunque differenti da quelle dei tempi ante pandemia. Non si tratta solo dell’annosa contrapposizione fra favorevoli e no–vax, accesa dall’obbligo vaccinale in età pediatrica. Con Covid–19 il problema riguarda tutti, e adesso quella dei bambini è forse la categoria meno coinvolta nella vaccinazione, perché meno vulnerabile all’attacco virale. È un dibattito etico essenziale con aspetti che governi, studiosi e opinione pubblica stanno già affrontando, oltre agli enormi investimenti sulla ricerca di un vaccino sicuro ed efficace che a oggi non sappiamo se verrà: il tema in tutte le sue articolazioni resterà centrale per molto, perché ne dipende la tenuta economica e sociale del mondo intero.

Ed è proprio l’urgenza necessaria nel trovare una soluzione definitiva per l’uscita da questa pandemia a far emergere una problematica importante ma finora relegata fra gli addetti ai lavori: gli Human Challenge Studies (Hcs), ovvero le sperimentazioni condotte infettando consapevolmente volontari sani. Un argomento tabù soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, quando vennero alla luce gli esperimenti dei nazisti, fra i quali c’era l’infezione intenzionale dei prigionieri con il bacillo della tubercolosi. Ma un tabù anche continuamente infranto: nella letteratura di settore leggiamo una stima di 22.257 volontari che dal 1900 a oggi si sono sottoposti consapevolmente ad infezioni di diversi patogeni, e i risultati non sono mancati. Gli Hcs hanno contribuito alla realizzazione del primo vaccino al mondo per la malaria, e poi a quelli per il colera e l’influenza, a studi su antivirali e infezioni gastrointestinali, mentre sono stati respinti, perché ritenuti troppo pericolosi, per il virus Zika. Va ricordato che il premio Nobel per la Medicina nel 2005 fu assegnato a Barry Marshall per la scoperta “del batterio Helicobacter Pylori e il suo ruolo nella gastrite e nell’ulcera peptica”, a cui Marshall contribuì anche bevendo una soluzione con il batterio studiato (sviluppò in cinque giorni un’ulcera, trattata poi con successo con gli antibiotici). Ma è la stessa vaccinazione che nasce con un “challenge study”: nel 1796 Edward Jenner inoculò a James Phipps, il figlio di otto anni del suo giardiniere, il vaiolo bovino – da cui il nome “vaccinazione” – esponendolo successivamente al vaiolo umano, da cui il piccolo rimase immune.

Va chiarita, sinteticamente, la differenza con le usuali sperimentazioni cliniche per i vaccini, dove i volontari vengono sottoposti alla vaccinazione sperimentale e poi esposti al contagio naturale, quello cioè a cui si è esposti nella vita quotidiana. Negli Hcs invece, dopo la vaccinazione sperimentale i volontari vengono infettati intenzionalmente con l’organismo patogeno, per verificare l’efficacia della copertura vaccinale. Esistono poi Hcs per studiare le dinamiche di malattie contagiose, a prescindere da vaccini. I vantaggi rivendicati dai sostenitori stanno nella potenzialità di accelerare i tempi della ricerca, specie vaccinale, ma non solo: bastano molti meno volontari rispetto agli usuali trials clinici che prevedono decine di migliaia di partecipanti, a fronte di numeri sempre inferiori a cento per gli Hcs. E poi c’è differenza nelle specifiche conoscenze che si possono acquisire sull’interazione patogeno–ospite: più informazioni in meno tempo, insomma, cioè sperimentazioni molto più snelle con costi di gran lunga minori, che acquistano maggiore importanza nella corsa a un vaccino, specie quando si è dentro una pandemia e si deve stabilire fra le tante strategie possibili su quali puntare (a oggi per Covid–19 ci sono circa 130 proposte diverse in ambito vaccinale e solo alcune hanno superato le prime fasi sperimentali). Secondo i sostenitori degli Hcs, il bilancio globale finale sarebbe un maggior numero di vite salvate. Nel 2016 l’Oms ha prodotto un documento in proposito Human Challenge Trials forVaccine Development: regulatory considerations, con limiti regolatori a questo tipo di sperimentazioni, il primo dei quali è escludere l’infezione intenzionale con agenti patogeni ad alta letalità per i quali non esistono terapie efficaci: i volontari non devono subire danni significativi, e ovviamente non possono rischiare di morire, ma la malattia indotta deve essere prontamente diagnosticata e trattata.

I volontari infettati devono poi sottostare a un rigido regime di isolamento per il tempo epidemiologicamente necessario al fine di impedire che l’organismo infettante possa uscire dal circuito della sperimentazione. Colpisce lo scarso spazio lasciato alle considerazioni etiche, confinate in un ultimo e breve paragrafo in cui si ricorda il principio basilare dell’etica clinica di «minimizzare il rischio dei soggetti e massimizzare i benefici», e si sottolinea con toni imbarazzanti che «per loro natura gli human challenges trials sembrerebbero contraddire questo precetto base». Imbarazzante è l’uso del condizionale, perché è evidente che gli Hcs contraddicono i principi etici della professione medica innanzitutto, che si propone di curare ogni singola persona malata e non certo di danneggiarla intenzionalmente, e a maggior ragione l’attività di ricerca sugli esseri umani, che si basa sulla primazia di ciascun essere umano, il cui bene e interesse deve sempre prevalere su quello della società o della scienza, come recita ad esempio l’art.2 della Convezione di Oviedo, guarda caso mai citata dai sostenitori di questi studi. Il valore di ogni singola persona è immensamente superiore a qualsiasi vantaggio che la società possa ottenere dal suo sacrificio: è questa la base etica fondante della cultura occidentale.

Una contraddizione che sta esplodendo in questi tempi di Covid– 19. L’Oms ha proposto un nuovo documento specifico, Key criteria for the ethical acceptability of Covid–19 human challenge studies, in cui indica 8 criteri perché gli Hcs su Covid–19 siano eticamente accettabili. Un testo che supera quello precedente: per Covid–19 ancora non ci sono terapie e c’è la possibilità di morirne, quindi secondo i criteri di solo qualche anno fa gli Hcs non sarebbero stati possibili. Con fine ironia Soren Holm dell’Università di Manchester ha evidenziato questa e altre incoerenze in un suo articolo sul Journal of Medical Ethics, commentando che «le argomentazioni possono essere valide in Utopia, ma non sono valide in nessun futuro plausibile del mondo reale». Nel mondo scientifico e nella società civile il dibattito è esploso. Un gruppo di 125 scienziati, fra cui 15 premi Nobel, ha lanciato l’appello «Infettare volontari sani per accelerare sul vaccino contro il Covid», e un sito a sostegno degli Hcs, 1daysooner (un giorno prima), ha raccolto a oggi la disponibilità di più di 32.000 volontari per gli Hcs da 140 paesi di tutto il mondo, più di tutti gli arruolati in questi studi dal 1900 a oggi. Si tratta di giovani, perché per minimizzare il rischio di morte e di danni è questa la categoria più indicata per partecipare.

Un fenomeno su cui andrebbe la pena riflettere, per esempio sul valore e lo scopo del consenso informato in questi casi, e poi sulla questione economica: cosa va “rimborsato” ai partecipanti? L’Oms non se ne occupa, ma le cifre in ballo sono elevate: è evidente che, oltre la generosità ingenua di alcuni, il corrispettivo economico è il principale incentivo ed è quindi più facile che i volontari siano persone bisognose. Ed ecco ripresentarsi la vecchia questione della compravendita del corpo umano e delle sue parti, con l’ambiguità della dicitura “rimborso” che spesso maschera un vero e proprio compenso.

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