Tempo nuovo nel Myanmar e seri errori da superare
sabato 5 dicembre 2020

Caro direttore,

le elezioni politiche dell’8 novembre scorso, stravinte da Aung San Suu Kyi e dal suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia (Nld), hanno aperto un tempo nuovo in Myanmar. Il voto del popolo ha confermato la scelta per la democrazia. E il processo è consolidato, nonostante le difficoltà, la sospensione del voto in alcuni Municipi a causa dei conflitti armati, il rapimento di tre candidati dell’Nld nel Rakhine, l’uccisione di un parlamentare eletto nel nord dello Shan e nonostante che la Costituzione in vigore, quella del 2008, sia non democratica. Il voto è stato molto partecipato e pacifico, in piena emergenza pandemica.

Con più dell’80% dei consensi e la maggioranza assoluta dei seggi, l’Nld potrebbe dar vita a un suo governo, ma ha scelto di formare un governo di unità nazionale rivolgendo l’invito a partecipare ai 48 partiti etnici, espressione di un popolo di 135 etnie riconosciute. Una scelta strategica, per potenziare il processo di riconciliazione, inclusione e pace, e per costruire la Repubblica dell’Unione Federale Democratica, che è l’obiettivo politico di questa legislatura. Dopo più di 60 anni di governo militare, centralista e nazionalista, il federalismo democratico è per il Myanmar l’orizzonte del XXI secolo, la via per la pace. In questo quadro si legge anche il gesto del gruppo armato Arakan Army, nel Rakhine, che nei giorni successivi al voto ha chiesto al governo e ai militari che si tengano al più presto le elezioni politiche anche nei territori dove erano state sospese, mentre i militari hanno dato il loro assenso a negoziati con i ribelli.

Una nuova stagione politica, costituente, si è aperta, dunque, in questi giorni e per i prossimi cinque anni. Con essa dovranno confrontarsi i militari, sconfitti nelle urne pur mantenendo ancora un ruolo politico con importanti leve del potere in mano. Eppure, anch’essi sanno che il loro ruolo è destinato a ridimensionarsi. I prossimi tre mesi vedranno l’elezione delle più alte cariche dello Stato e la formazione del governo. È il Myanmar del XXI secolo che il popolo ha forgiato con le elezioni del 2012, del 2015, del 2020, confermando costantemente al Nld una maggioranza schiacciante.

Questa è l’ora di un nuovo dialogo tra la comunità internazionale, il Myanmar e la sua leader, Aung San Suu Kyi. Collocato nello scacchiere asiatico, tra l’India e la Cina, membro dell’Asean, con intensi rapporti politici ed economici con la Cina, il Giappone, la Corea del Sud, l’India, Singapore, il Myanmar è partner del grande accordo commerciale multilaterale del Pacifico recentemente firmato da 14 Paesi. È centrale nell’iniziativa cinese Belt and Road e ha profondi legami con l’Europa.

L’Occidente e le organizzazioni internazionali dei diritti umani e della cooperazione non potranno mancare a questo appuntamento. Sappiamo che in questi anni è prevalso l’approccio delle critiche ad Aung San Suu Kyi sulla questione dei rohingya, subito trasformata nella caduta della sua icona. Un approccio che non rende giustizia a lei, né alla complessità del Myanmar, né agli interessi internazionali e geopolitici in gioco, né alla ricerca di soluzioni vere al problema di quella minoranza etnica e religiosa. Non rende giustizia a lei, leader da trent’anni nel suo Paese, una leadership non violenta, per vent’anni vissuta agli arresti domiciliari, e unica al mondo. Non rende giustizia al suo sforzo per coinvolgere nel 2016 la comunità internazionale, attraverso la Commissione d’indagine sul Rakhine da lei costituita e affidata a Kofi Annan. Ma la comunità internazionale e i media l’hanno ignorata. Un appuntamento mancato, la consegna a lei e al mondo del Rapporto Annan il 25 agosto 2017. Di lì, con gli attacchi nello stesso giorno del gruppo terroristico Arsa (Arakan Rohingya Salvation Army), e la reazione brutale dei militari, è iniziato l’esodo dei rohingya verso il Bangladesh.

Non stupisce che di fronte alla Corte internazionale di Giustizia de L’Aia, chiamata dalla Organizzazione della cooperazione islamica a rispondere all’accusa di intenzione di genocidio da parte del suo Paese, lei abbia negato questa intenzione, pur riconoscendo la gravità degli episodi di violenza. Pensava al futuro del Myanmar, e dei Rohingya. E ora è tempo, per tutti, di una svolta. È tempo per l’Occidente di una strategia politica lungimirante, che sostenga concretamente il processo democratico in Myanmar, la pacificazione nazionale e il rientro dei rohingya. Che apra anche a una partnership economica e commerciale, con reciproco vantaggio. Tre anni fa, in questi giorni, papa Francesco era in Myanmar. Un incontro non dimenticato, un cammino che continua.

già presidente dell’Associazione Parlamentare Amici della Birmania

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