mercoledì 6 febbraio 2019
Una lettrice racconta l’impossibilità di vivere con una ragazza a carico e 550 euro di disoccupazione, se non “arrotondando” con un’attività irregolare. E si chiede se sia lecito...
Sussidio e lavoro nero per mia figlia. Ma non è "giusto"
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Caro direttore,
in un giorno qualunque, un giorno come tanti, cioè un giorno di ordinaria disperazione, un pensiero fisso mi tormenta: “È giusto lavorare a nero, pur percependo un sussidio di disoccupazione?”. La domanda sembra complicata. La risposta invece diventa drammaticamente semplice quando la disperazione supera qualsiasi altra valutazione in ordine all’opportunità. Allora la risposta che cercavi è lì. È quella. Non ci può essere spazio per una risposta diversa. Sono una donna separata di 42 anni, con una figlia da mantenere, un mutuo da pagare, e tutte le altre spese della vita quotidiana a cui far fronte. Percepisco un’indennità di disoccupazione di circa 550 euro al mese. Cioè il Governo mi sta dicendo che 550 euro rappresenterebbe una cifra che può consentire a una famiglia di poter vivere. Eh, no... non si può neanche parlare di sopravvivenza. È molto meno della sopravvivenza, e della dignità. Allora, di fronte alla possibilità di poter svolgere un lavoro “in nero” che mi avrebbe consentito di integrare il nostro magrissimo reddito attraverso un’altra piccola entrata, non ho avuto dubbi su cosa scegliere. E penso di aver trovato la risposta alla mia domanda. Non sognavo di vivere nell’illegalità, non sognavo una vita così, una vita fatta solo di tante rinunce per me e per mia figlia. Ma non è più sopportabile per me entrare in un negozio e sperare che mia figlia scelga la maglietta che costa meno, per evitare l’imbarazzo di dirle che quella che le piace di più non me la posso permettere. Non è più sopportabile per me dirle che è il caso di rinunciare a qualsiasi attività extrascolastica in modo da avere più tempo da dedicare allo studio, solo perché quell’attività non gliela posso pagare. Non è più sopportabile per me dirle che le stanno veramente bene i capelli lunghi (il che è anche vero), solo perché non posso permettermi di portarla dal parrucchiere troppo spesso. Non è più sopportabile per me dirle che i suoi denti sono perfetti così, solo perché il costo di un dentista e di un eventuale apparecchio per me sarebbe insostenibile. Per questo ho deciso: sarò una donna che vive nell’illegalità. Ecco... queste sono le scelte quotidiane di tante persone disperate. Non chiamateci “furbetti”. Siamo solo persone che chiedono a gran voce il diritto a poter vivere, e non a sopravvivere. Disegnare il Sud come un’orda di barbari alla ricerca di un “mantenimento di Stato” lo ho trovato intellettualmente disonesto. Trovo che non sia più accettabile farci passare per quelli a cui basta buttare un tozzo di pane, un tozzo di pane che ci dobbiamo far bastare, come se non avessimo il diritto a pretendere di più.

Carmela Potenza

Cara Carmela,
non sarò certo io a giudicarla per il suo lavoro “in nero”. Le rispondo, su richiesta del direttore,
provando a immedesimarmi nella sua condizione e, in coscienza, non posso essere sicuro che non farei altrettanto per mantenere i miei figli se mi ritrovassi disoccupato con un sussidio minimo. Non la biasimo dunque, cara signora, sul piano personale, soprattutto se la sua attività “in nero” è marginale, solo per “arrotondare” un po’ le entrate familiari. Al tempo stesso, però, non mi sottraggo al quesito che pone nella sua bella e dolente lettera: se questo comportamento sia “giusto”. Purtroppo no, “giusto” non è. Lavorare “in nero” non potrà mai essere giusto. Perché le attività sommerse anzitutto sono pericolose per il lavoratore, non garantendo tutele in caso di infortunio. Inoltre, inquinano tutto il sistema economico, distorcendolo. Il lavoro irregolare, infatti, costa molto meno e rappresenta perciò una concorrenza sleale rispetto a quello regolare, a danno anche delle aziende che osservano leggi e contratti, sobbarcandosi più alti costi. Senza considerare tutti i danni indiretti di evasione di imposte e contributi che penalizzano l’intera società contribuendo alla crescita dei deficit pubblico e previdenziale. La responsabilità maggiore, ovviamente, è dei datori di lavoro, ma anche i lavoratori dovrebbero per quanto possibile sottrarsi al ricatto e denunciare i comportamenti scorretti. Certo il fenomeno è diffuso se nei giorni scorsi perfino il vicepremier Luigi Di Maio e il suo compagno di Movimento Alessandro Di Battista hanno dovuto ammettere la presenza di dipendenti irregolari nelle società di cui sono soci assieme ai rispettivi padri, mentre contenziosi di lavoro sono aperti pure nei riguardi dell’impresa (liquidata) dei genitori di Matteo Renzi (tutte vicende i cui esiti sono da vedere). Lavorare in nero, però, non è giusto tanto più quando si riceve un sussidio di disoccupazione o, tra qualche mese, si riceverà il Reddito di cittadinanza. Penso anch’io che sia sbagliato generalizzare e bollare semplicemente come «furbetti» quanti cercano di «vivere e non solo sopravvivere» con un «tozzo di pane», come dice lei. E però quando lo Stato – che poi vuol dire la comunità dei cittadini – si prende carico delle persone in situazioni di bisogno, con un assegno e un piano per favorirne l’occupazione, occorre essere leali fino in fondo. Le uniche monete con cui si può ripagare la solidarietà sono l’onestà, la disponibilità e l’impegno. Anche a costo di fare sacrifici, che per un figlio avranno un valore educativo molto più forte di una maglietta o un taglio di capelli in più. La saluto con un abbraccio e le auguro di trovare un’occupazione soddisfacente e in regola.

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