sabato 8 aprile 2017
Troppo sangue è stato versato in 6 anni di orrenda guerra civile e di brutale espansione islamista. «La distruzione più grave è quella che non si vede, quella che sta nel corpo della gente»
Apparente normalità. Piazza Marjeh a Damasco (Ansa)

Apparente normalità. Piazza Marjeh a Damasco (Ansa)

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Arriva all’improvviso, senza farsi annunciare. E sembra come se qualcuno stia sfregando una zappa dentata contro la ruvida pietra. È un suono stridente, prolungato che giunge di sghembo, che ci porta paura mentre raschia il cielo di Damasco. Un cielo di una bellezza azzurra, incomparabile, in questi giorni di primavera.


Di sole che si tuffa su questa terra di prodigi, di miracoli e miraggi, e pietre che conservano la memoria del tempo e sui cui è possibile decifrare, pagina dopo pagina, secoli di storia umana, biblica. La coscienza della sofferenza, dell’orrore e del dolore, sei anni dopo la rivolta contro il presidente Bashar al-Assad, è racchiusa in una parola che s’incontra nelle strade della Siria: «Rancore». Troppo sangue è stato versato in sei anni di orrenda guerra civile, di brutale espansione islamista, con l’ascesa di uno Stato islamico che non ha esitato a trucidare le sue vittime, dei combattenti di al-Qaeda, dei gruppi sparsi di milizie più o meno laiche e semplici bande di predoni che si sono buttate nella mischia: un conteggio approssimativo stima tra le 300 e le 400mila vittime, 5 milioni i profughi, 8 milioni gli sfollati. Troppo sangue, che ogni siriano, grande o piccolo, ha pagato di tasca propria. E oggi quel rancore s’è rintanato nell’intimità del corpo, in una sorta di spessa superficie callosa. Uno scudo diventato sempre più duro a protezione dell’anima dagli scuotimenti della guerra.


Dal frastuono degli strumenti di morte, dal lutto, dalle ferite di una terra che, quando e se sarà la pace, non sarà più la stessa nazione, certo, e avrà bisogno di anni e più generazioni per rimarginare il trauma. Anche la notizia che ha dato un brusco risveglio venerdì a Damasco, il bombardamento americano con missili «Tomahawk» partiti da navi Usa nel Mediterraneo, contro l’aeroporto militare di Shayrat, da dove sarebbero partiti i caccia per colpire la zona di Idlib con le bombe chimiche, una vicenda ancora tutta da chiarire, il 4 aprile, per «vendicare» la morte di 86 persone tra cui 30 bambini, fa urlare la rabbia e l’indignazione dei damasceni: «Un affronto, che non tiene conto di tutte le vittime che finora ci sono state in questa guerra».

«La distruzione più grave è quella che non si vede, quella che sta nel corpo della gente, e che è ancora più devastante dei palazzi ridotti in poltiglia, ma che sono semplici da riedificare», ci dice un osservatore locale che preferisce non essere citato. Il destino che accomuna tutti i siriani è la sofferenza pagata, ogni giorno, più di quanto si possa immaginare e richiedere a un essere umano e che va ben oltre un ipotetico limite, di una ipotetica scala del dolore. Da Damasco ad Aleppo est, dalla periferia di Homs a Raqqa, l’apocalisse dell’odio ha segnato tutti quanti. Cosa si può raccontare a dei genitori che la mattina hanno accompagnato il loro bambino a scuola e al pomeriggio glielo hanno riportato a casa fatto a pezzi da una bomba?


Non si vede, ma quel rombo di jet ci dice che sta sopra di noi. Il cacciabombardiere dell’aeronautica siriana fa sentire il suo ruvido respiro a tutta Damasco. Alziamo gli occhi al cielo e poi torniamo a guardare chi ci è vicino e notiamo che nessuno ci fa caso più e più nessuno alza gli occhi al cielo. E tutto continua come l’inesorabilità del tempo che scorre, della vita che, comunque, prevale: come il profumo del pane appena sfornato che aleggia nel vicolo, mentre all’angolo della strada c’è chi sorseggia un caffè turco seduto al tavolino del bar mentre sfoglia un quotidiano, intanto che due signore fanno la spesa al chiosco del macellaio, e l’uomo del gas spinge il carretto con sopra le bombole nuove da consegnare, con il chiasso del traffico automobilistico che è quello di sempre, tutti in coda a passo d’uomo in fila al «checkpoint» militare, sperando che la macchina davanti non sia un’autobomba, mentre i ragazzini in bicicletta marciano zigzagando tra un auto e l’altra, sfidandosi a chi arriva prima.


Così è anche per Gabriel e Bashar, due studenti, che continuano a giocare tentando di fare canestro con una pallina da ping-pong nel cortile della scuola elementare e superiore armeno-cattolica «Noour al manar», Luce del faro, nel quartiere cristiano di bab Tuma, nel cuore delle mura antiche della città vecchia, a due passi dalla «via Recta», citata negli Atti degli apostoli, del vescovo Anania e Paolo di Tarso.


Il jet è sempre su di noi. Ma, all’improvviso, quattro esplosioni in rapida successione arano a morte il vicino distretto di Jobar, a un paio di chilometri dalla spensieratezza di Gabriel e Bashar, e dell’onda di studenti che defluiscono dalla scuola con le cartelle in spalla e i giovani innamorati mano nella mano. Senza fretta, né ansia tornano alle loro case superando posti di blocco dell’esercito, senza far caso più a nulla. Né alle esplosioni del bombardamento aereo, né alle lontane raffiche di un mitra, forse della ribellione siriana o di qualche fanatismo islamista che controllano magre porzioni di territorio della periferia est di Damasco e che adesso altro non fanno che un poco di solletico al cacciabombardiere.


Neppure più si fa caso al cannone che a ridosso del leggendario monte biblico Qasiyun, dove si racconta si consumò il delitto di Caino su Abele e dove, si afferma, si vedrà pronunziarsi l’Estremo giudizio, spara ogni venti minuti.


Nel distretto Jobar, ci dicono, vivevano 400mila civili, poi sono arrivati i «terroristi» che hanno fatto scavare ai loro prigionieri un formicaio di tunnel dove si nasconderebbero per colpire la capitale a colpi di mortaio. Tutti sanno che è solo questione di un istante. Quello che separa la vita di ogni giorno dal proiettile di mortaio che arriva senza preavviso in mezzo alla folla di una scuola o del bazar e che trancia le ossa, amputa, uccide.


I due studenti che giocano a basket con la pallina da ping-pong, non mutano espressione del volto, quando chiediamo di indicarci il punto dove era accaduto il fatto. Uno dei due allunga il braccio verso quell’artigliata sul cemento del cortile a ricordo di uno sfregio di mortaio caduto dentro la scuola nell’ora dell’intervallo che ha ucciso una studentessa straziandone altre decine di ragazzi e ragazze.


Nella sofferenza ci sono dentro tutti: sunniti, drusi, alauti, sciiti, cristiani, curdi. Nessuno è trasversale alla falce della morte. Non guarda negli occhi, non fa distinzioni, ma è letale come la roulette russa, un gioco d’azzardo, per chiunque, soldati, civili, commercianti, studenti, massaie che ogni giorno vivono sotto questa spada di Damocle della guerra, dei bombardamenti, dei mortai, dei rapimenti, delle scomparse improvvise, delle vendette, delle prigioni nascoste dove la tortura è lo strumento primitivo e prediletto da usare contro il nemico per annientarlo nell’anima prima che del corpo.

Voci che vengono dalla vita di ogni giorno, da chi d’improvviso non ha avuto più notizie di parenti, amici, vicini di casa, raccontano che in questi anni, almeno 25 mila persone, su tutti i fronti di questa sporca guerra, sono scomparse senza lasciare più una traccia. Rapiti, usati come schiavi, dissolti, spariti, estinti. «Allah a’atta al naqud ila annas alati la yastahiqun», quasi grida un anziano artigiano palestinese dal suo chiosco di souvenir spalmati di un deposito di polvere, in un angolo della moschea ottomana Suleymania. Dajani è anziano oramai. Lui, figlio della diaspora che nel 1948, con la nascita dello stato di Israele, calò in Siria, con le sue parole dice che: «Dio ha dato i soldi a persone che non li meritano, che li usano per fare il male». Ma Dajani è anche un uomo che crede nella speranza, fiducioso che un giorno tutto dovrà finire: «Le guerre costano investimenti e sono senza guadagni se poi non vengono concluse».


Torniamo tra le mura della città vecchia, in mezzo alla quiete rassegnazione di ogni giorno. Al gioco d’azzardo con la vita. Costeggiando il ghetto ebraico dove è rimasta una sinagoga che ancora al sabato accoglie una manciata di anziani ebrei, gli ultimi testimoni della loro storia. In fondo al decumano, dopo le possenti colonne del tempio di Giove, a ridosso della Grande moschea Omayyade, che Giovanni Paolo II, primo Papa, visitò nel lontano 2001, per inginocchiarsi e pregare davanti al cenotafio che, dicono, conserva la testa di san Giovanni Battista, il profeta Yahya, nella tradizione musulmana, c’è il suq-al Hamidiyah, un tempo spettacolo immancabile per una moltitudine di turisti. Oggi il luogo del lavoro quotidiano che resta affollato di bottegai e venditori.
«In molti sono partiti Australia, Canada, Germania. Conosco la storia di un noto avvocato che ha venduto le sue case e ora vive a Ottawa dove lavora come fornaio. No, io non parto, Damasco resta la mia casa - racconta un cameriere di Bakdash la più antica gelateria della capitale -. Siamo tutti consapevoli che è solo questione di fortuna, perché la normalità in Siria, oggi, è solo la morte».

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