giovedì 14 settembre 2017
La partecipazione come assunzione di responsabilità. C'è un potenziale partecipativo che si lega a istanze di giustizia, umanizzazione, democrazia e può essere interpretato
Sindacato, la grande sfida
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Che il sindacato si trovi oggi in una situazione non facile è fuori discussione. Siamo in presenza di una organizzazione che fatica non poco a cogliere le trasformazioni in atto nella domanda di lavoro e nei modelli di impiego, impossibilitata sia a fare sintesi tra valori, orientamenti, identità, stili di vita sempre più diversificati sia a gestire veri e propri conflitti di interesse tra lavoratori dei settori concorrenziali e lavoratori dei settori protetti, tra giovani e anziani, tra uomini e donne, tra insider e outsider.

Così stando le cose il sindacato sembrerebbe rischiare lo spiazzamento e quindi un inarrestabile declino. Non necessariamente deve essere così. I vincoli e i condizionamenti possono trasformarsi in occasioni, aprire nuovi spazi per la presenza e l’azione del sindacato. Un sindacato, certamente, plurale, proiettato nella sfera istituzionale ma che non rinuncia al suo radicamento sociale, attento alle condizioni di lavoro e alla loro evoluzione, che assume la fornitura di servizi come un ponte tra lavoro e welfare, che cerca di promuovere condizioni favorevoli all’assunzione di responsabilità partecipative – a livello decisionale, finanziario, operativo – da parte dei suoi rappresentati nelle diverse realtà della vita economica e sociale.

La situazione si presenta oggi in un contesto di grande complessità e articolazione. I due termini – capitale e lavoro – tanto nella loro essenza quanto nelle loro relazioni sono in discussione. Il lavoro vede moltiplicarsi i propri statuti, modalità di esplicazione, motivazioni e appartenenze dentro l’impresa e fuori l’impresa; può diventare soggetto attivo dei processi di accumulazione. A sua volta, il capitale si concentra e anche si socializza dando vita a nuovi attori economici. L’investimento nei fattori immateriali fa premio su quello nei fattori fisici e materiali e nel contempo il management, se liberato dalla sudditanza nei confronti della grande proprietà, potrebbe proporsi come punto di riferimento per tutti gli stakeholders interessati al benessere e alla crescita dell’impresa.

In quest’ottica, la partecipazione dei lavoratori tanto nell’impresa attraverso il loro responsabile coinvolgimento decisionale e operativo quanto all’impresa attraverso il concorso alla definizione del suo dover essere e dei suoi obiettivi generali assume, oggi, una molteplicità di manifestazioni ed espressioni tra loro strettamente connesse. Relazioni interne, relazioni contrattuali, relazioni partecipative, bilateralità si combinano reciprocamente in contesti ove il trade off tra rapporti di forza o conflittuali da un lato, condivisione degli obiettivi, esplicitazione di regole di comportamento e di rappresentanza dall’altro è destinato a cambiare drasticamente a vantaggio di questi ultimi elementi, con la conseguente necessità per il sindacato (ma anche per le imprese e le istituzioni) di un grosso sforzo di riposizionamento culturale e operativo.

Lo scenario, nella prospettiva europea, è quello dell’economia sociale di mercato. Per quanto riguarda il nostro Paese si tratta di qualificarne strutture e processi. È in gioco il grande tema della democrazia economica e più in generale di allargamento delle frontiere della democrazia tout court. Si tratta di aumentare sia il numero dei soggetti che possono prendere parola sulla scena politica, economica e sociale sia le dimensioni da porre a fondamento delle scelte, definite non solo dal profitto ma anche da valori sociali, ambientali e culturali in vista del bene comune. In questo quadro, l’azionariato dei dipendenti potrebbe concorrere, costituendone un fattore di innesco non secondario, alla riforma e consolidamento del capitalismo italiano. L’azionariato dei lavoratori diventa elemento connettivo dell’impresa e di legame con il contesto sociale. Ciò attraverso l’attivazione di una circolarità virtuosa tra proprietà (non totalmente anonima o indistinta ma anche facente capo a soggettività – quali appunto i lavoratori – interessate allo sviluppo dell’impresa nel tempo come modo per salvaguardare occupazione e reddito sia in conto salario sia in conto capitale), governo (responsabile nei confronti delle diverse istanze interne ed esterne di cui i lavoratori e il sindacato sono interpreti di fondamentale importanza), controllo (che il lavoro attraverso i propri rappresentanti nell’assemblea e soprattutto nel consiglio di sorveglianza o di amministrazione può esercitare in maniera vigile, informata e propositiva), gestione (cui lavoratori motivati e fidelizzati apportano secondo modalità partecipative competenze, professionalità, saperi).

La partecipazione del lavoro al capitale d’impresa e la sua presenza negli organi societari conferiscono, in qualche misura, stabilità e soprattutto radicamento all’impresa stessa evitando le degenerazioni di un capitalismo invisibile e imprendibile, totalmente svincolato dalle esigenze ma anche dagli apporti in termini di cultura, valori, professionalità, relazionalità che possono provenire dalle comunità territoriali di riferimento, produttrici di quel 'capitale fisso sociale' che si rivela sempre più fattore di competitività e di successo. I lavoratori direttamente coinvolti nello sviluppo dell’impresa, attenti alla qualità e quantità dell’occupazione, possono rappresentare un antidoto salutare contro la divaricazione tra dinamica reale e dinamica finanziaria, ponendo quest’ultima al servizio di un disegno di crescita che, nel mentre crea benessere per tutti gli stakeholder dell’impresa, concorre altresì alla valorizzazione del suo stesso capitale. I destini delle aziende, come istituzioni produttrici di ricchezza e di benessere non possono essere abbandonate agli esiti di giochi meramente finanziari espropriando i luoghi dell’intelligenza e della progettualità reale.

Pur con tutti i limiti e contraddizioni, non si può sottovalutare il potenziale partecipativo oggi esistente nelle organizzazioni economiche e sociali. Un potenziale partecipativo che si lega a istanze profonde di giustizia, di umanizzazione, di democrazia in grado di esprimersi in tutti gli ambiti della vita associata. Tale potenziale partecipativo chiede però di essere, in qualche modo, interpretato, rappresentato, promosso e trasformato, per così dire, in 'merce politica' da porre sul piatto della bilancia in vista di trasformazioni più generali, evitando il riflusso nel particolare, nel settoriale, nell’egoistico. La solidarietà e la sussidiarietà creano le premesse perché abbiano a dispiegarsi le potenzialità di ciascuna persona, perché sia possibile l’accesso più largo ai beni e ai servizi di base nell’interesse del maggior numero di soggetti e nel rispetto delle generazioni future.

In questa prospettiva, il sindacato (continuo – spes contra spem – a usare il singolare!) può farsi soggetto di modernizzazione e di trasformazione accettando le sfide dell’innovazione, della flessibilità, dell’allargamento degli orizzonti di riferimento, della crescente complessità del sociale. Per confrontarsi con tali sfide – impegnative e ineludibili – al sindacato non basta il conflitto per poi contrattare, a valle, con le diverse controparti. Occorre viceversa risalire a monte. Sviluppo e lavoro richiedono di essere assunti in termini contestuali. Il lavoro non viene dopo lo sviluppo, come portato o conseguenza dello stesso. Al contrario, ne costituisce un elemento coessenziale al pari di altri fattori quali l’innovazione, la qualità, la creatività che proprio nelle persone trovano il loro radicamento e la possibilità di piena esplicazione. Tutto ciò richiede da parte del sindacato un’assunzione diretta di responsabilità nell’indirizzo, nel controllo e anche – talvolta – nella gestione delle scelte economiche e sociali. E giocoforza passare da una 'cultura delle conseguenze' a una 'cultura di progetto', mettendo in comunicazione interessi differenziati, esplicitando e costruendo comuni valori condivisi, dandosi un programma e una speranza di vita buona, o per lo meno decente, per tutti.

*professore emerito dell’Università di Genova

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