Senza più carte da sprecare
giovedì 26 agosto 2021

Ora che hanno vinto nella maniera più clamorosa, umiliando la superpotenza statunitense e lanciando ultimatum a chi affannosamente sta cercando di portare in salvo gli afghani più esposti, ci si chiede come si comporteranno i taleban.
E se sia utile o solo possibile aprire a un riconoscimento de facto del loro restaurato regime, cercando di favorire il consolidarsi di un governo inclusivo di altre e alte personalità, che ne moderino le politiche. O, al contrario, se si debba contrastarli, cercando di sostenere le fragili forze che ancora si oppongono a loro, ossia le milizie guidate dal figlio dell’iconico comandante Massud, il 'leone del Panshir', oppure colpendoli finanziariamente, scatenando una spaventosa crisi finanziaria (e umanitaria), contando di obbligarli a un compromesso.

Si legge e si vede molta superficialità in questi scenari, spesso venati dal velleitarismo di chi ritiene che l’Occidente – incapace di stabilizzare l’Afghanistan in venti anni di presenza sul campo – abbia ora chissà quali ampi margini di manovra. Ma prima di ragionare su quali possano essere le nostre politiche per condizionare i taleban, è forse bene chiedersi che cosa vi sia dietro questa etichetta. E quanto profonde siano le divisioni al loro interno. Sorprendentemente, nonostante decenni di analisi, studi e lavoro di intelligence, li capiamo ancora poco. Sicuramente meno di quanto loro conoscano e capiscano noi. Abbiamo
tantissime informazioni su questo spezzone di islam politico, ma fatichiamo a comporre il puzzle complessivo. Sappiamo per certo che la lotta contro il governo di Kabul e contro le forze Nato ha celato a fatica divisioni e rivalità che la vittoria ora potrebbe far emergere, anche se è illusorio pensare che ciò possa portare a conseguenze decisive. Tuttavia è evidente, e infatti è stata colta, la differenza fra le parole del loro leader politico (che non è il leader supremo) mullah Abdul Ghani Baradar, del portavoce internazionale Zabibullah Mujahid e le azioni sul campo. La tattica taleban è chiara: cercare di rassicurare la comunità internazionale pronunciando le parole che gli occidentali amano sentirsi dire. Ma, oltre a questo, vi è di più. Come tipico di tutti i movimenti di guerriglia, esiste una progressiva divaricazione fra chi sta all’estero, e tratta a livello politico, e chi sta sul campo a combattere. Molti dei guerriglieri taleban non hanno rischiato la vita solo per ricreare l’Emirato islamico ma per avere una paga mensile, per ambizioni o vendette tribali, per la promessa di avere 'in dono' una moglie, dato che in Afghanistan per sposarti devi pagare una dote, e molti non hanno mezzi a sufficienza.

Ora che marciano vittoriosi per le città, soprattutto nelle aree di altri gruppi etnici (i taleban sono in larga maggioranza pashtun), è difficile per i loro leader rimangiarsi le promesse fatte. E chi ha combattuto sul campo contro le forze del governo di Kabul accetterà tranquillamente un governo inclusivo che comprenda le voci che in questi anni sono state inflessibili nel contrastarli? Vi sono poi le differenze fra chi vuole un Emirato islamico afghano chiuso alle influenze straniere e chi è molto (forse troppo) legato al Pakistan, Paese che ha permesso la nascita dei taleban come movimento organizzato negli anni 90, li ha sempre protetti e sostenuti e sta giocando un ruolo cruciale anche nelle attuali vicende. Ma quanti dei nuovi padroni dell’Afghanistan accetteranno l’idea di essere subordinati agli interessi di Islamabad, considerando il senso irriducibile e fiero di indipendenza e di rifiuto dai condizionamenti stranieri dei pash- tun? Vi è infine il problema della presenza di comandanti e guerriglieri che non guardano solo all’Afghanistan ma che sono in qualche modo legati all’idea del jihad globale.

Ad esempio, a Kabul gira ora da padrone Sirajuddin Haqqani, il capo del cosiddetto 'gruppo Haqqani', ossia colui che ha utilizzato massicciamente lo strumento delle stragi di massa tramite attentatori suicidi. Le sue mani sono macchiate del sangue di migliaia di civili afghani, tanto che sulla sua testa pesa una taglia di Washington. È questo un interlocutore che gli occidentali possiamo accettare, nonostante da anni cerchi di accreditarsi come un mediatore per la pacificazione? Ma come marginalizzarlo, visto e considerato il suo peso nell’establishment taleban? Prima di avventurarsi in scelte frettolose, allora, è meglio capire come si strutturerà il nuovo Emirato islamico e chi avrà le leve del comando. Anche perché, avendo perduto così malamente, all’Occidente non rimangono molte carte da giocare. Sarebbe auspicabile non sprecare anche queste.

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