Sbarco di Salerno: la guerra che deve finire
mercoledì 8 novembre 2017

Lo sbarco di Salerno, settembre del 1943 ad opera delle Forze Alleate, è sui libri di storia. Lo sbarco di Salerno, novembre del 2017, è cronaca amara della tragedia dei nostri giorni e dei nostri mari. Una nave in porto, la Cantarbia, Spagna, e tra i 400 salvati da naufragi, 26 cadaveri di donne, la più giovane 14 anni, la più anziana 18. Due eventi lontani tra loro, con il mare a fare da letterale spartiacque tra la fase conclusiva di una guerra che era diventata di Liberazione e la sequenza ormai ordinaria di approdi che portano a riva, tutte insieme, salvezza e speranze e un immane carico di sofferenza e di morte. Ventisei donne sono state l’enorme banda a lutto di una nave che, insieme ad altre, era stata la piattaforma sulla quale avevano poggiato la loro salvezza uomini, donne e bambini provenienti da diverse sponde e Paesi; e sul punto di arrossare ancora di più le acque, mai limpide, di un Mediterraneo, terreno liquido – e perciò più subdolo – di una guerra non dichiarata ma sempre in atto.

Una guerra non convenzionale, come quella dell’altro sbarco, ma che continua a spostare l’asse di una violenza sempre più conclamata verso un conflitto che ha come primo nemico non l’avversario che indossa una divisa di altro colore, ma l’umanità stessa, tutti quei valori, oltre che la pietas per l’uomo, sui quali la civiltà ha costruito con fatica il proprio edificio. Questo conflitto di umanità sembra oggi il nuovo nome di una guerra sotto altre forme – e nella sostanza perfino più crudeli – perché sotto tiro non è più soltanto un’entità plurale, come lo Stato o la nazione, ma la singola persona; e proprio nel momento in cui manifesta la sua vulnerabilità e la sua debolezza.

È sotto tiro l’uomo come migrante, l’uomo come rifugiato, l’uomo senza casa e senza terra: l’umanità senza potere che è di tutte e di nessuna patria, come i poveri che spartiscono il loro niente tra confini che non esistono. Sul mare, tra i suoi spazi immensi e silenziosi, si affaccia sempre più l’orizzonte cupo di chi non sa che farsene, o non sa che sia, un’umanità capace non solo di deporre le armi, ma di non cercare per altre strade come colpire il prossimo.

E come farlo perfino in nome di un simulacro di giustizia, che soprattutto dal ventre molle di un’economia malata, estorce motivi per agire e mettere a tacere ogni forma di scrupoli. Sovrappopolazione, mancanza di risorse, sottosviluppo (non come colpa a proprio carico, ma scaricata sulle spalle di chi lo subisce) sono gli alibi a portata di mano – insanguinate – che alimentano l’intollerabile mercato dello scarto. Un intreccio perverso che rende i poveri, gli indifesi e i vulnerabili, scandalosamente 'necessari' e ineliminabile parte in causa per progetti che sono anti-umani sul nascere.

Lungo questa strada la deriva non può che essere senza fine. Neppure più la morte ha l’ultima perfida parola, come quei ventisei cadaveri di giovani donne dello sbarco di Salerno, orrendamente dimostra: fino all’ultimo la vita ha presentato loro il lato peggiore. Le loro bare, all’arrivo, tra le mani tese dei volontari e quelle non meno compassionevole degli uomini di legge – le forze di polizia e i rappresentanti dello Stato – hanno conosciuto la tenerezza che ad esse spettava in vita. Un gesto, tuttavia, non inutile né tardivo, ma che indica quali armi contrapporre a questo conflitto di umanità che continua a mettere radici, e a mietere vittime quanto e più di una guerra dichiarata. Si è forse di fronte al lato peggiore di quella guerra combattuta a pezzi di cui ha parlato più volte papa Francesco.

Non si tratta di violenza cieca, come può essere il terrorismo, né di una malattia del momento. C’è chi pensa che l’umanità sia qualcosa che l’uomo non può più permettersi: come una sovrastruttura che ha fatto ormai il suo tempo. E allora non resta che passare all’azione. Per terra (perché nessuno ne sia cacciati da violenza e ingiustizia) e, quando occorre, anche per mare. Donne e bambini in primo piano, sempre.

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