giovedì 1 luglio 2021
Senza più il supporto di Parigi in Mali l’esercito rischierà di capitolare di fronte alla pressione del Daesh. Un nuovo ruolo per l’Italia dopo la conferenza di Roma
Sahel, dal disimpegno francese una nuova fase di incertezza

Ansa

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È arrivata in un momento cruciale la conferenza di Roma della coalizione anti-Daesh. Sposta l’asse della lotta al jihadismo verso l’area sahelo-sahariana e l’area di crisi fra il Golfo di Guinea e il Corno d’Africa. Suggella il ritrovato impegno statunitense in questa parte del mondo, che passerà dalla fornitura di un 30% di commando, di mezzi d’intelligence e di sistemi di ricognizione ai contingenti europei, in un momento in cui i francesi si disimpegnano dall’area, quasi cedendo il testimone all’Italia, che sembra invece candidarsi ad un ruolo di primo piano.

Roma sta cercando a fatica di reinserirsi nei giochi diplomatico-economici libici, per cercare una soluzione negoziale prossima ai suoi interessi. Ha una strategia di ampio respiro, con 17 missioni nel triangolo strategico che corre dalla Somalia, tocca la Libia, il Mali e sbocca nel Golfo di Guinea. Esprime la rappresentante speciale dell’Ue per il Sahel. Ha basi in Niger, un presidio a Gibuti, un avamposto in Mali e si accinge a fornire il più grosso contingente europeo alla task-force di forze speciali imbastita intorno ai commando francesi. La aspettano giorni difficili, di guerra non convenzionale nella regione delle tre frontiere, fra il Mali, il Niger e il Burkina Faso, a caccia di jihadisti di al-Qaeda e del Daesh. Il nuovo comandante di al-Qaeda nel Maghreb islamico, Abu Ubaïda Yussef al-Anab, ha appena esortato i suoi accoliti ad intensificare gli attacchi contro le forze internazionali presenti in Mali, un Paese che è sfuggito di mano non solo allo stato centrale, ma anche ai francesi.

Due colpi di Stato nel giro di un anno hanno sconvolto il panorama politico locale e mandato in tilt la geopolitica regionale. Il colonnello Assimi Goïta, filorusso, si è issato il 24 maggio al vertice degli apparati statali, estromettendo la vecchia guardia e flirtando con l’imam conservatore Dicko, emblema della wahhabiya di origine saudita. Dicko è molto influente sulle masse e sugli ambienti jihadisti. La mossa di Goïta ha mandato su tutte le furie la Francia, potenza tutrice di Bamako. Il 3 giugno, Parigi ha rotto gli indugi, sospendendo la collaborazione militare con le forze armate maliane. Non le affiancherà più nella lotta contro i jihadisti, né le addestrerà. La misura sarebbe solo temporanea, una sorta di ritorsione contro la nomina di Choguel Maïga al vertice del governo. Maïga è il presidente del comitato strategico del movimento del 5 giugno, una sorta di giacobino maliano inviso all’Eliseo.

Senza il supporto francese, l’esercito di Bamako, la capitale del Mali, crollerà come un castello di carte. Nonostante gli sforzi internazionali per irrobustirlo, siamo lontani almeno 10 anni dall’obiettivo ricercato. I maliani sono mal equipaggiati, non hanno soldi e hanno problemi di addestramento. Manca concertazione nelle cooperazioni e ci sono problemi di standardizzazione. Sul terreno, i rovesci per mano dei jihadisti sono all’ordine del giorno. Tuttavia molti sospettano che la presidenza francese abbia sfruttato la tempesta abbattutasi sul Mali per disimpegnarsi militarmente. L’operazione nel Sahel costa troppo, economicamente e umanamente: più di un milione di euro al giorno e più di 50 morti. I risultati sono effimeri, tattici più che operativi. La missione elimina una media di un combattente jihadista ogni due giorni, ma il Daesh nel Grande Sahara e il Gruppo di supporto all’Islam e ai Musulmani, filoqaedista, rimpiazzano le reclute con una facilità sorprendente, infliggendo duri colpi alle forze locali, ai civili e ai caschi blu della Missione delle Nazioni Unite. Se il calendario sarà rispettato, a inizio 2022, Parigi avrà abbandonato al suo destino il nord del Mali. Vi chiuderà tutte le basi e non vi proietterà più pattuglie. Nel 2013, i problemi del Mali erano partiti proprio dal settentrione, costringendo le autorità di Bamako a invocare l’aiuto della Francia per stoppare le colonne jihadiste in marcia sulla capitale.

Ora l’orologio torna nuovamente indietro. Nell’estate 2022, non ci saranno più di 3.500 soldati francesi in tutto il Paese e nel 2023 ne resteranno solo 2.500. Molto dipenderà da chi siederà all’Eliseo a quella data. Rimarranno senz’altro gli aerei da controguerriglia, con un polo di 400 uomini circa in Niger, le forze speciali, forse ridotte dai 400 commando odierni e degli istruttori. Un insieme che non supererà gli 800-1.000 uomini. Dopo la conferenza di Roma, Macron può però dirsi soddisfatto. Ha internazionalizzato la sfida al jihadismo saheliano, con forze europee e assetti americani, per intestarsi i meriti e condividere gli oneri. Ma per ora abbiamo solo petizioni di principio e di fatti concreti a sud del Sahara se ne vedono pochi. Quando la Francia aveva promosso la task-force di forze speciali Takuba aveva pronosticato un contingente paneuropeo di 2mila uomini. Ad oggi è riuscita a mobilitarne solo 300 e ha dovuto innestare 300 commando transalpini.

Per molti, il Sahel non è prioritario. Quasi tutti gli eserciti occidentali stanno archiviando il ventennio della guerra al terrorismo e stanno dirottando dottrine, risorse e addestramenti verso confronti convenzionali ad alta intensità. C’è da prepararsi ad eventuali conflitti con Cina e Russia. A chi vuoi che importi veramente dell’arco di crisi saheliano e della piovra jihadista che semina morte e distruzione dall’Atlantico al Canale di Mozambico? L’ultima strage ha mietuto 160 vittime civili in Burkina Faso. Il disimpegno francese impatta su tutti gli alleati, come una palla da bowling sui birilli. Governi che avevano previsto di inviare truppe nella regione delle tre frontiere ci ripensano, a partire dai belgi, che trattengono in patria un’intera compagnia, accampando scuse poco credibili. Anche i danesi temporeggiano. Solo la Romania ha fatto un piccolo sforzo.

Con questi chiari di luna il Mali rischia di diventare un nuovo Afghanistan, se non una pedina nel gioco d’influenze fra Russia e Turchia. Le manovre dell’Eliseo potrebbero addirittura rivelarsi un boomerang. Forse i francesi scommettono sul fatto che le forze armate maliane da sole non reggeranno il confronto con il jihad e imploderanno. Ma la giunta al potere potrebbe esser stata pungolata nell’orgoglio e propendere verso altri alleati. Nella sua giunta, il colonnello Goïta ha mantenuto l’omologo Sadio Kamara al vertice del ministero della Difesa. Il defenestramento di Kamara, era stato uno dei motivi scatenanti il golpe. Kamara si apprestava a firmare diverse convenzioni con la Russia, a detrimento della Francia, spiega Fakaba Sissoko, direttore del Centro di ricerca di analisi politiche, economiche e sociali del Mali.

Il gioco potrebbe essere già sfuggito di mano. Molti quadri dell’esercito maliano si formano ormai in Russia. Mosca ha un accordo di collaborazione tecnicomilitare con Bamako e consiglieri militari in loco, appartenenti alla compagnia militare privata Wagner. Parigi farebbe bene a ponderare le mosse. C’è la crescente influenza russa e turca dietro il sentimento anti-francese in aumento in molti Paesi del Sahel. Macron l’ha denunciato apertamente sulla rivista JeuneAfrique. Mosca dispone di potenti mezzi d’influenza, come il canale televisivo RT in lingua francese o l’organizzazione 'Patrioti del Mali', apertamente antifrancese.

Dopo il colpo di stato dell’agosto 2020, che ha defenestrato IBK e la vecchia guardia al potere in Mali, Igor Gromyko, ambasciatore russo nel Paese, è stato uno dei primi diplomatici stranieri a essere ufficialmente ricevuto dalla nuova giunta maliana. Nelle piazze si inneggia sempre più spesso al ruolo salvifico della Russia e girano cartelli che invocano ' le départ de la France'. Parigi è già stata scalzata dalla Russia in Centrafrica, è insidiata dalla Turchia in Niger e perde terreno in Ciad. Ha sbagliato completamente strategia in Libia. Il vecchio impero africano è agli sgoccioli.

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