Roberta e la Sla, il diritto non è la morte ma la vita
giovedì 27 giugno 2019

Cara Roberta,

ho letto la sua storia sul quotidiano a cui ha affidato i suoi pensieri e la sua richiesta di poter mettere fine in fretta, con l’eutanasia, alle sue sofferenze. Mi permetto di scriverle perché, come lei, sono ammalato di SLA, e se ha avuto modo di leggere le pagine del diario che da alcuni mesi affido ad Avvenire ('Slalom', ogni 15 giorni sull’inserto 'È Vita' e anche su avvenire.it), saprà che i suoi pensieri, le sue paure, le sue angosce sono uguali alle mie. Come lei conosco molto bene i problemi e i sentimenti che questa patologia finisce per imporci. Conosco le notti insonni perse guardando il buio, conosco lo svuotarsi giorno dopo giorno di ogni energia, conosco la paura per quello che verrà. Conosco il problema di non poter far fronte a tutte le cose che questa malattia richiederebbe, ai soldi che ogni mese finiscono prima, al pensiero di non potersi permettere un’assistenza adeguata alle nostre esigenze, al dover rinunciare per questo anche a quegli integratori che, se non ci salvano la vita, potrebbero almeno alleviarcela. Così come conosco molto bene i pensieri di morte che l’accompagnano, anche per il troppo tempo che abbiamo per pensarci, magari fissando nella nostra immobilità forzata sempre lo stesso spicchio di cielo dalla stessa finestra.

A differenza di lei non mi sento abbandonato dalla famiglia, anzi. Mi stanno tutti vicino, e con loro molti amici, molti di più di quelli che si sono allontanati e dei pochissimi che si sono rivelati degli sciacalli. Ma tutto questo amore attorno a me non allontana quei pensieri di morte e in qualche modo, al contrario, a volte sembra avvicinarmeli perché non mi piace l’idea di ricambiare quell’amore con un peso che sembra ogni giorno più intollerabile e ingestibile.

Però il punto è proprio questo: non mi permetto di giudicare il suo appello a morire con dignità, ma proprio adesso che il Parlamento sta per affrontare la questione, credo che prima abbiamo il dovere di rivendicare il diritto a vivere con dignità, anche in questa condizione estrema. E sappiamo molto bene, lei ed io, come questo ci sia negato. La burocrazia ci uccide con le sue lentezze inesorabili, fingendo di ignorare che per noi contano i minuti, non i mesi. Ha mai avuto modo di notare come in Italia si vedano per strada o nei ristoranti pochissime persone nelle nostre condizioni? Nel resto d’Europa, in Francia, Germania, Gran Bretagna questo non succede, è anzi la normalità, ma noi molto presto restiamo prigionieri delle nostre case, perché il costo di ogni adeguamento delle abitazioni – montascale, ascensori, barriere architettoniche interne – è quasi integralmente a nostro carico e nessuno può affrontare certe spese. Lo stesso per l’assistenza di cui abbiamo bisogno 24 ore su 24 per 365 giorni l’anno: le Regioni assicurano un pugno di ore a settimana, nel Lazio 15,5, e il resto? Chi è in grado di sostenere certe spese? In Italia ammalarsi come siamo malati noi è un lusso per pochissimi. Siamo la nazione europea in cui si spende di meno per sanità, e dove i servizi domiciliari praticamente non esistono. Se lei ed io fossimo ammalati in Germania lo Stato avrebbe adeguato a sue spese le nostre abitazioni, potremmo contare su tutto quello di cui abbiamo bisogno quotidianamente, e non parlo solo di presidi medici, ma anche, per esempio, di computer speciali per poter lavorare o anche solo passare il tempo; addirittura lo Stato arriva a pagare il surplus di energia elettrica necessaria a far funzionare le macchine di cui abbiamo bisogno. Io credo che questa sia civiltà, un assicurare una vita dignitosa che non può non precedere l’assicurare una fine dignitosa. Senza quella, riconoscere il 'diritto a morire' è semplicemente un modo di lavarsi le mani di noi e dei nostri problemi, sperando che togliamo in fretta il disturbo, una sorta di moderna Rupe Tarpea da cui gettare le persone ritenute inutili.

Assicurarci il diritto a vivere con dignità costerebbe pochissimo considerato quanti siamo. Ma proprio perché siamo pochi, non contiamo, non valiamo, non siamo nulla. Siamo, appunto, già morti, e riconoscerci il diritto a morire è una grandissima, ipocrita comodità.

Mi scusi ancora, signora Roberta, di averla disturbata nel suo dolore che, mi creda, è anche il mio. Vorrei però che, così come invoca il suo diritto a poter scegliere una morte dignitosa, si unisse a me nell’invocare una vita dignitosa. Non costa molto. L’Italia ha insegnato al mondo che cosa siano la civiltà e la bellezza. Dovrebbe continuare a farlo proteggendo i più piccoli e deboli. Sarebbe una grande cosa in questo tempo che al contrario sembra voler rimuovere dalla Storia i piccoli, e i deboli.

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