mercoledì 22 maggio 2013
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Caro direttore,
sono una impiegata di un ipermercato da oltre 22 anni. Dallo scorso gennaio, oltre alle aperture domenicali da novembre a gennaio più la prima domenica di ogni mese, siamo costretti, grazie al decreto liberalizzazioni, alle aperture sette giorni su sette. L’80% della forza lavoro sono madri di famiglia e per di più part-time, appunto perché le madri danno "un colpo al cerchio e uno alla botte". Se prima ci si barcamenava, ora è veramente una valle di lacrime: stiamo di riposo un giorno settimanale, quanto tutto il resto della famiglia è impegnato a scuola o al lavoro, per andare invece alla "guerra" la domenica. Voglio precisare che per noi lavoratori del commercio anche il sabato è obbligatorio. Sull’altare della liberalizzazione – la libertà uguagliata a mero consumismo: che schifo e che tristezza... – abbiamo sacrificato la qualità delle nostre esistenze e di quelle delle nostre famiglie. E i clienti, sia vecchi pensionati che giovani famiglie con bambini isterici e un po’ rachitici (per attivare la vitamina D ci vuole il sole, quello vero, e non i neon delle luci degli ipermercati), vengono alla tua cassa di domenica con il litro di latte fresco (arrivato al nostro magazzino la domenica mattina alle 7 ma confezionato comunque il venerdì precedente, come quello comperato di sabato) e le due rosette e dicono – a te cassiera o segretaria pseudo cassiera della domenica -: mi spiace che lavoriate di domenica, ma ringraziate che avete un lavoro... con i tempi che corrono! Totale spesa: euro 2,70. Abbiamo rinunciato a tutti i diritti per i quali i lavoratori prima di noi hanno duramente combattuto. Il benessere e l’economia non sono un ipermercato aperto dalle 8,30 alle 22!! dimenticavo: facciamo l’inventario di tutto il magazzino due volte l’anno; prima lo facevamo in orario diurno a porte chiuse mezza giornata. Ora, dulcis in fondo, in orario notturno: ovvero dalla chiusura magazzino sino alle 3/4 del mattino! E alle 8,30 del giorno dopo siamo sempre "sorridenti" e "felici" al nostro posto di lavoro che siamo "così fortunati" di avere: con i tempi che corrono!
Elena
 
Caro direttore,
io vorrei tanto che mia sorella, che fa la commessa in un negozio di abbigliamento, non arrivasse a dire frasi del tipo: «Forse è meglio che non ho figli, se no quando me li godrei?»... Vorrei che non sentisse dire più dalla sua "capa": «Se ti va bene, è così. Se no, ci sono tante altre». Secondo lei è normale lavorare 15 giorni consecutivi e avere solo 2 giorni di riposo al mese? Chi sceglie di lavorare in ospedale, o al ristorante, o chi guida gli autobus, sa già che la domenica gli spetterà di lavorare, ma appunto, almeno facendo dei turni... non quattro domeniche su quattro! Il parroco del mio paese ha dovuto aggiungere una Messa alle 20.15 della sera, proprio per quei poveretti che non riuscivano nemmeno più a partecipare alla Messa domenicale... Ma a che punto siamo arrivati? Io, alla domenica, nemmeno se mi ci portano strisciando entro in un centro commerciale...
Liliana
Scelgo, care e gentile amiche, i vostri due messaggi tra i tanti che sono arrivati sul nostro sito online in risposta all’invito a "dire" la propria sulla domenica sempre più trasformata in normale giorno di lavoro e di consumi. Voi sapete che "Avvenire" sostiene con convinzione e documentate argomentazioni le iniziative tese a restituire valore al «giorno del Signore» che, per credenti e non credenti, come ci ricordano il Papa e i vescovi, è da secoli e secoli il «tempo della famiglia e della comunità». Sapete anche che proprio per questo condividiamo le buone ragioni della campagna di informazione e mobilitazione "Libera la domenica" (con la collegata proposta di legge d’iniziativa popolare portata in Parlamento da ben 150.000 firme di cittadini-elettori). E magari ricordate che, esattamente da questo spazio, ho anch’io rilanciato il "consiglio" di partire, in ogni caso, da noi stessi per «liberare» la nostra domenica da occupazioni improprie e avvilenti che separano le famiglie, mortificano le amicizie, disgregano le comunità, disperdono le tradizioni, rendono complicato persino partecipare alla santa Messa. Voglio ripeterlo. Perché, qualunque sia l’andazzo dominante e persino a dispetto delle sordità di quanti regolano e governano tali processi, è ormai necessario dare una svolta. Partiamo dal nostro stile di vita, dalle nostre piccole e grandi scelte. Obiettiamo, in tanti, con spirito cristiano e con civile senso di solidarietà, alla indiscriminata confisca lavorativa della domenica. "Votiamo" con i nostri comportamenti di cittadini-clienti-consumatori per il rispetto di Dio e della persona umana e per un altro modo di pensare e organizzare il lavoro di tutti. Ma davvero di tutti: di quelli per i quali il lavoro domenicale non può certo essere definito un essenziale o tradizionale obbligo e pure di coloro che, invece, non possono proprio farne a meno, perché – da medici o da operatori di altri servizi pubblici, da persone impegnate in particolari cicli produttivi – anche di domenica realizzano o garantiscono qualcosa di prezioso e d’importante per tutti gli altri. Insomma: persino a prescindere da norme e regolamenti, torniamo a vivere "come si deve" il settimanale giorno di festa. Recuperiamone con semplicità e verità il valore, e scopriremo subito che l’effetto c’è, si vede e si sente. Lo dico prima di tutto a me stesso, care Elena e Liliana. Perché vi confesso che in passato qualche volta sono stato indotto anch’io in tentazione dal supermercato aperto di domenica e da un vuoto (da dimenticanza) in frigorifero... Le vostre lettere hanno però il merito di rendere granitico il mio proposito: mai di domenica. Liberiamo responsabilmente la nostra domenica e libereremo anche quella degli altri. Riprendiamocela così, tutti insieme. Il dies dominicus è una ricchezza comune che non possiamo dilapidare e non deve esserci rubata.​​​​
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