martedì 16 giugno 2020
Dopo la chiusura delle frontiere a causa della pandemia anche l’ultimo baluardo dell’accoglienza ha ceduto alle paure. Sui migranti ora il rischio è l’utilitarismo
La stretta canadese e la sicurezza a senso unico

Reuters

COMMENTA E CONDIVIDI

Sicurezza (pubblica) e diritto alla mobilità (individuale) sono apparsi, durante l’emergenza sanitaria, come i due poli di un irrisolto braccio di ferro. In un dibattito condito da richiami alle esigenze dell’economia e del consenso politico, a restare in ombra è stato uno degli effetti più rilevanti del blocco della mobilità: la rarefazione delle opportunità di migrazione legale e, ciò che è ancor più drammatico, la sospensione, di fatto, del diritto a richiedere asilo. Particolarmente esposte al rischio di contagio, per via della loro situazione precaria, le persone in cerca di protezione si sono trovate a fare i conti con la chiusura generalizzata delle frontiere che, come denunciato tra gli altri dall’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, ha dato nuova linfa alle pratiche di respingimento, tracciamento e detenzione, e reso spesso impossibile presentare domanda d’asilo. Tutto ciò mentre le operazioni di reinsediamento dei rifugiati subivano uno stallo, e quelle di soccorso in mare e lungo le rotte terrestri si facevano ancor più difficili e complesse (o addirittura venivano piegate a obiettivi di sicurezza nazionale). A non patire gli effetti della pandemia è invece il sistema dello smuggling e trafficking (ovvero le organizzazioni che lucrano dalla gestione delle migrazioni 'irregolari' e della tratta) che anzi, come segnala un report dell’UN Office on Drugs and Crimes, potrebbe perfino aver tratto vantaggio dall’ulteriore ampliamento della forbice tra il numero di coloro che fuggono da situazioni di pericolo – dalla Libia piuttosto che dai paesi del Centro America travolti dalla violenza e dalla crisi economica – e le possibilità di migrare in sicurezza.

Negli ultimi anni l’obiettivo di contenere il volume di richiedenti asilo ha spesso assunto, beffardamente, le sembianze di un richiamo all’aggettivo “sicuri” applicato ai paesi terzi eretti a gendarmi delle frontiere europee, ancorché sia evidente come, in molti casi, si tratta di paesi tutt’altro che sicuri per chi cerca protezione. Nel quadro disegnato dalla pandemia, è di nuovo attorno all’ambiguità del concetto di sicurezza che si gioca una partita che, per molti, è quella tra la vita e la morte. In nome dei porti “non più sicuri” per via del Covid- 19, ad esempio, si sono fortemente limitate le operazioni di soccorso in mare e si sono incoraggiati i migranti a percorrere itinerari ancor più pericolosi. E perfino in un paese come il Canada, spesso additato a modello nella gestione dei rifugiati, il principio del “ safe third country” (il paese terzo sicuro) rischia di compromettere l’esercizio del diritto d’asilo proprio per i migranti privi dei capitali culturali, economici e relazionali che aprono l’accesso agli ingressi sponsorizzati. Circostanza che ci fa comprendere come attorno al delicato equilibrio tra sicurezza e diritto alla mobilità si delineino scenari allarmanti. Tanto più se si considera che il crescente ricorso a soluzioni tecnocratiche – per esempio le procedure di controllo e decisionali automatizzate – presenta molte falle quando si tratta di valutare situazioni complesse come sono, per definizione, quelle che i richiedenti asilo cercano di lasciarsi alle spalle.

Analogamente a quanto stabilito dal sistema di Dublino per i paesi europei, l’accordo vigente tra Usa e Canada impone di presentare la domanda d’asilo nel primo paese attraversato. Una previsione contestata da molti attivisti dei diritti umani, che giudicano gli Stati Uniti un paese inadeguato ad offrire reale protezione, specie nelle congiunture in cui il quadro politico è meno amichevole verso migranti e rifugiati. Questo vincolo può essere eluso solo da coloro – una quota decisamente minoritaria dei migranti per ragioni di protezione, la maggior parte dei quali utilizza invece i canali ufficiali – che chiedono asilo dopo essere approdati sul suolo nazionale (ciò che è invece la norma in Italia). Si tratta, perlopiù, di migranti centro-sud-americani che riescono ad attraversare la frontiera con gli Usa senza subire alcun controllo – 16.500 nel 2019 – così guadagnandosi l’accesso al sistema di protezione canadese “saltando la coda” (e con esso l’appellativo di 'richiedenti irregolari'). Una possibilità rimasta in vigore anche dopo il blocco della mobilità transfrontaliera (a fronte dell’azzeramento dei reinsediamenti di rifugiati dall’estero), ma solo fintanto che una campagna social – di nuovo in nome della “sicurezza” rispetto ai rischi di contagio – non ha obbligato il primo ministro a sospenderla, con l’effetto di risucchiare gli interessati nel limbo del soggiorno irregolare. Il provvedimento assunto da Justin Trudeau è stato annunciato come temporaneo e giustificato dalla pandemia; tuttavia, esso rischia di segnare un punto di non ritorno – specie nell’evenienza di un futuro cambio di governo – sdoganando la soluzione del respingimento verso gli Stati Uniti.

L'insofferenza verso i richiedenti “irregolari” è infatti un sentimento diffuso nell’elettorato canadese, insieme all’insoddisfazione nei confronti di un accordo che si ritiene consenta ampi margini di aggiramento, producendo un numero insostenibile di richiedenti asilo. Una situazione speculare a quella registrata in Europa durante la recente crisi dei rifugiati che ha generato accuse (e numerosi respingimenti) nei confronti dell’Italia, rea di lasciarsi attraversare da un flusso di “clandestini” in marcia verso il Nord Europa. Per quanto discutibile, il principio del paese terzo sicuro è oggi ritenuto indispensabile alla sostenibilità del sistema internazionale di protezione. Più che il principio in sé, è la sua applicazione a dover essere discussa, specie laddove vi siano dubbi sul-l’effettiva “sicurezza” dei paesi con cui si fanno accordi. E specie laddove essa tradisce l’asimmetria di atteggiamenti verso il presidio dei confini: va da sé, ad esempio, che l’America di Trump non ha alcun interesse a rafforzare il suo impegno nel controllo della sconfinata frontiera che la separa dal Canada; quello stesso impegno che invece pretenderebbe dal governo messicano.

Sul fronte canadese, non manca chi propone un rafforzamento capillare dei controlli lungo il confine, benché si tratti di un progetto velleitario. Considerazioni sui vantaggi demografici ed economici dell’immigrazione si contrappongono ad altre relative al suo presunto impatto culturale nefasto sull’identità della società canadese e sugli stessi assunti di una politica migratoria tradizionalmente orientata a selezionare i soggetti più vantaggiosi. Ed è proprio il contenuto di questi argomenti a suggerire un’analogia con le vicende nostrane. Qui come là si fa strada l’idea che, per conquistarsi il diritto ad essere accolti, anche i richiedenti asilo devono essere economicamente convenienti, culturalmente integrabili, demograficamente proficui. Più che la loro, è la “nostra” sicurezza a costituire il parametro cui si allinea la stessa gestione dei rifugiati, come l’esperienza di queste settimane ha abbondantemente dimostrato. È invece prendendo le distanze dalle derive sicuritarie e selettive che informano il governo della mobilità umana che metteremo davvero al sicuro il nostro futuro e la nostra identità, quella europea e quella di una grande democrazia come il Canada. Decidendo se un paese terzo merita l’appellativo di sicuro in base alla sua reale capacità di garantire sicurezza ai più fragili. Ed accogliendo e proteggendo innanzitutto i più vulnerabili tra i vulnerabili, senza chiederci quanto ci convenga.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: