giovedì 25 luglio 2013
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Che l’accettazione acritica della legge sull’omofobia sia diventata una sorta di nuovo e paradossale «valore non negoziabile»? Pare proprio di sì, se è vero che nei dibattiti pubblici e negli editoriali delle testate "laiciste" (e, in diversi casi, anche solo "laiche"...) mettere in discussione quella normativa, significa tout court essere condannati come portatori di visioni all’insegna dell’intolleranza, del bigottismo, della cieca obbedienza a precetti moralistici e – manco a dirlo – «al Vaticano». I cattolici non sono forse – secondo ossessivi luoghi comuni – quelli incapaci per antonomasia di argomentare razionalmente e di esercitare la pratica del dialogo, quelli che mettono continuamente in campo un proprio orizzonte «dogmatico»? Che cos’è insomma che non funziona in questo difficile ma necessario dibattito pubblico intorno ai temi dell’omofobia e delle richieste dei cosiddetti diritti civili per gli omosessuali? Possibile che pensarla diversamente, scateni la passione degli opinionisti di turno, convinti che bisogna arrendersi al nuovo che avanza o, addirittura, che si debba esserne entusiasti? L’obiezione corrente – così si dice – è legata alla convinzione circa la scomparsa della "cultura maggioritaria" dei cattolici e dunque sulla necessità di voltare pagina, con tutta la retorica europeista che qui si accampa. Il continuo assalto di certa stampa alle opinioni dei credenti si fonda sull’idea che ormai anche in Italia sarebbe dominante una "cultura pluralista", portatrice di differenti valori e stili di comportamento, per cui occorre praticare una sana tolleranza e il rispetto per le opinioni diverse. Che cosa importa a un eterosessuale cattolico se il vicino di casa, gay, aspira al matrimonio e ad avere in un qualche modo dei figli? Non ha diritto, forse, alle sue scelte politiche e affettive? Perché continuare a pressare su valori e dignità "non commerciabili" che ormai sarebbero solo segno di una "cultura di minoranza"? Il relativismo, in altri termini, non è un mostro minaccioso che avanza, ma l’inevitabile risultato di una società disincantata. Un pensiero qui si impone: relativismo e pluralismo sono la stessa cosa? Certo che no. Proviamo ad analizzarne la struttura etico-politica. Il pluralismo, espressione dell’incontro tra culture diverse, è un dato da accogliere e da valorizzare, dal momento che aspira alla convivenza il più possibile armoniosa di istanze e aspirazioni diverse e che non teme di proporsi e di legittimarsi sul terreno della politica, e che richiede certamente l’arte difficile dello scontro dialogico. Lo scontro fra opinioni diverse è l’anima della democrazia, quando non degeneri in conflitto sociale e serva alla causa comune: quella di riproporre nella sfera pubblica la molteplicità dei punti di vista, in ordine alla loro possibile convivenza. Il dialogo, in questo caso, perde il suo carattere retorico e utopista, per rivestire i panni di una pratica difficile e necessaria, rispettosa di tutte le differenti identità culturali e religiose. Il relativismo, al contrario, punta a un obiettivo più ambizioso: affermando che i valori sono validi all’interno del proprio orizzonte di riferimento, non cerca il confronto o il riconoscimento, quanto piuttosto la battaglia per pretendere legittimità normativa e politica alle proprie istanze. Al relativista non interessa misurarsi con un criterio oggettivo e di natura; l’essenziale per lui è la difesa della propria soggettiva identità e visione. Va da sé che, per ottenere i propri scopi, occorre mobilitare l’opinione pubblica, facendo rumore più di altri, costruendo il proprio statuto di vittima di intolleranza sociale e rivestendo le proprie pretese di verità su basi non necessariamente condivisibili. Più lontano dalle autentiche basi comunitarie della democrazia, il relativismo finisce in tal modo per mortificare un sano pluralismo, rifiutando il dialogo, perché questo significherebbe accogliere le altrui verità, sottoponendo le proprie convinzioni a un equilibrato argomentare razionale. Per questo oggi è così difficile improntare un dibattito pubblico su questi temi, senza rischiare di essere attaccati con argomentazioni intolleranti e ideologiche. Ma non si può rinunciare a ragionare e a dire ciò che va detto.
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