mercoledì 10 gennaio 2018
Con la sua partecipazione piena alla guerra di Siria ha spiazzato Stati Uniti e Nato, conquistando basi e spazi importanti di manovra. Il riavvicinamento con la Turchia passa da gasdotti e centrali
Il lancio di un missile da una nave militare russa

Il lancio di un missile da una nave militare russa

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Sta nascendo una nuova potenza mediterranea, con cui bisognerà fare i conti. Vladimir Putin ha realizzato il sogno degli Zar: avere una presenza permanente nelle acque del Mare Nostrum. La sua diplomazia è attivissima, fatta di vendite di armi, accordi anti-terrorismo, mediazione negoziale e commercio energetico. Il neo zar di Russia muove le pedine con un calcolo cinico, razionale e tattico. Sta incassando i dividendi di un impegno a 360 gradi. Si muove agilmente fra i vari attori, con un equilibrismo capace di conciliare la guerra al fianco degli sciiti e dei reietti iraniani, con le istanze di altri gruppi etnici e confessionali. Nella tragedia siriana, Putin ha avuto fin dall’inizio una posizione opportunistica, tesa a preservare i suoi desiderata, fra cui la base in espansione di Tartus e la neonata Hmeimim. Prime tessere di un mosaico in piena evoluzione, che la Russia sta piegando ai suoi disegni di potenza. Si era già capito pochi anni fa, quando un gruppo operativo per il bacino mediterraneo è rispuntato dal nulla, il 1° giugno 2013. Dalla data della creazione, la squadra mediterranea ha visto avvicendarsi tutti i gioielli della marina moscovita. Un mix di unità teso a lanciare un segnale di forza all’Occidente, in un bacino dove la Russia è tornata a giocare la sua partita, cogliendo di sorpresa gli Stati Uniti e la Nato. Interrogato recentemente dalla stampa, il comandante Yasnitskiy ha ammorbidito i toni, ricordando che il distaccamento mediterraneo conterà a regime solo una ventina di navi, contro le settanta d’era sovietica. Staremo a vedere.

Sta di fatto che negli ultimi quattro anni i russi hanno proiettato nell’area tutte le classi delle grandi unità da combattimento, a testimonianza di uno sforzo di grandeur che va oltre i limiti di una marina vecchiotta. La rinascita mediterranea malcela progetti espansionistici. Per ora, Mosca ha ipotecato per 49 anni la base siriana di Tartus, che forma un unicum aeronavale con Hmeimin, cinquanta chilometri più a nord. Ne farà una stazione di spionaggio dell’intelligence militare, ampliandola fino ad accogliere simultaneamente undici navi di grossa stazza. Uno o due sommergibili d’attacco dovrebbero incrociare stabilmente nelle acque mediterranee. E i russi sarebbero scesi a patti con i turchi proprio per avere mano libera negli Stretti. In cambio sarebbero pronti a sacrificare le relazioni con i curdi e ad approfondire la cooperazione tecnico-militare, senza dimenticare il fattore energetico, con l’avvio ormai spedito dei lavori per il gasdotto Turkish Stream e la realizzazione della grande centrale nucleare di Akkuyu. Si tratta di progetti che legheranno strettamente Mosca e Ankara, accrescendo la dipendenza energetica (e tecnologica) turca nei confronti della Russia. Quando ultimata, la centrale di Akkuyu, nel sud-est turco, potrà sfornare 35 miliardi di kWh l’anno, equivalenti grosso modo al 10% della domanda elettrica di Ankara. Ma sarà costruita da Rosatom secondo il modello Build-Own-Operate . In pratica, il colosso russo dell’atomo la possederà e la sfrutterà, rivendendo l’energia alla Teias, l’azienda nazionale turca dell’elettricità.

Ma torniamo subito a Tartus, che ha il vantaggio strategico di trovarsi fra i punti nevralgici degli Stretti turchi e del canale di Suez. La base permetterà alla marina russa di rafforzare la sua presenza fino all’Oceano Indiano, facendo diplomazia muscolare in un’area ricchissima. Avendo Mosca cancellato i tre quarti del debito siriano, Bashar Assad avrebbe garantito lo stazionamento futuro in Siria di navi russe armate di testate nucleari. Ma ci sarebbe dell’altro. Mosca starebbe puntando infatti ben oltre il Mediterraneo orientale. In Maghreb ha scoperto ormai le sue carte, cogliendo i frutti di un’attività diplomatica frenetica e silente. La relazione con l’Egitto vive momenti fecondi. La porta d’ingresso storica dell’Urss in Africa, è tornata strategica. La Russia ha moltiplicato i contratti di armamento ed è ormai il primo fornitore di sistemi complessi al Cairo. Come se non bastasse, Rosatom costruirà la prima centrale nucleare del Paese. Con grande disappunto dei sauditi, gli egiziani stanno votando sempre con la Russia al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, almeno nel dossier siriano.

Un rovesciamento di alleanze del tutto inatteso fino all’ottobre 2016, segno dell’ennesimo successo colto nell’area dalla diplomazia del Cremlino. La geopolitica di Putin mira a ottenere scali navali e aerei, in primis a Sidi Barrani, sulla costa mediterranea, dove sono stati più volte segnalati contractor russi. Non pago, il Cremlino vorrebbe punti d’appoggio anche in Libia, a Tobruk, per scardinare gli equilibri mediterranei e avere hub sicuri più a ovest delle basi siriane e degli scali egiziani. Non è un caso che stia sostenendo apertamente il maresciallo Khalifa Haftar, cui avrebbe promesso armi per un valore di oltre 1,5 miliardi di dollari, fra jet, blindati, sistemi antiaerei e così via, insieme a un piano a lungo termine per ristrutturare le forze armate libiche. Sebbene non ci siano conferme ufficiali, è verosimile che ci sia la mano russa dietro i rifornimenti che arrivano al numero uno della Cirenaica. Le compagnie aeree che lo sostengono con aiuti di ogni genere sono della Moldavia, Paese in mano al filorusso Igor Dodon.

Lasse Mosca-Il Cairo-Tobruk non finisce di sorprendere. Si sta arricchendo piano piano di nuovi tasselli. Dopo le manovre congiunte dell’ottobre 2016 è stato un crescendo continuo, tanto che a dicembre 2017 è stato siglato fra le cancellerie russoegiziane un preliminare di accordo quinquennale, che garantirebbe l’uso congiunto delle basi e dello spazio aereo egiziano all’aeronautica russa e viceversa. Come al solito, i disegni di grandeur si autoalimentano. Mosca spera che un domani anche Rabat possa garantirle facilità navali, stavolta nell’Oceano Atlantico. Da un po’ di tempo, il Marocco non è più una riserva di caccia franco-statunitense, perché sta diventando un partner commerciale russo di grande spessore, grazie all’export intenso di prodotti agroalimentari e all’impennata dei flussi turistici. La visita di re Mohammad VI a Mosca, nel marzo 2016, è coincisa con il rilancio della politica africana del Cremlino. In quell’occasione, la presidenza russa ha spiazzato la comunità internazionale e il Segretario generale delle Nazioni Unite, garantendo al sovrano marocchino di «tenere in altissima considerazione la posizione del Marocco nella questione del Sahara Occidentale». Una mini-rivoluzione copernicana della geopolitica russa, visto il legame di lunga data con l’Algeria, tutrice del Fronte Polisario e delle rivendicazioni del popolo saharawi. In cambio, i russi sperano di avere laute contropartite. P er ora, Rabat potrebbe essere il prossimo cliente dei missili antiaerei S-400, ma in gioco ci sarebbe dell’altro, forse più in là nel tempo, quando la Russia si doterà di portaerei, teoricamente sei fra 20-30 anni. Per muoversi attraverso lo stretto di Gibilterra e sfondare nell’Atlantico, il Marocco sarebbe un partner ideale, visto che controlla la sponda meridionale dello Stretto e dispone di un’immensa linea di costa atlantica, fra Tangeri, a nord, e la frontiera mauritana, a sud. La Nato e l’Italia sono avvisate. Negli spazi mediterranei si staglia nuovamente l’ombra della potenza russa.

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