La «proboscide» sferza ancora
martedì 22 gennaio 2019

Insieme ai cambiamenti climatici, l’aumento della disuguaglianza è l’ostacolo più grande che la comunità internazionale ha davanti a sé sulla strada dello sviluppo sostenibile, l’unico in grado di garantire un futuro all'umanità. Perché la disparità di risorse e soprattutto di opportunità rischia di alimentare il livello di conflittualità fra le Nazioni e dentro gli Stati, generando un rancore pronto a trasformarsi – ovunque, nessun luogo è immune – in rabbia sociale, visto che a pagare il conto delle divergenze crescenti sono 3,8 miliardi di persone, la metà più povera della popolazione mondiale. È un pericolo reale, non un frutto avvelenato di narrazioni distorsive dei fatti e dei numeri come accade per il fenomeno delle migrazioni, e dovrebbe diventare la vera sfida per le istituzioni sovranazionali e i governi.

La dinamica della disuguaglianza porta in dote un paradosso: negli ultimi 40 anni è diminuita globalmente, ma è aumentata localmente. Su scala planetaria, la distribuzione della ricchezza ha assunto le sembianze di un elefante. È stata una delle maggiori autorità in materia, l’economista Branko Milanovic, a illustrare il "grafico con la proboscide" in uno studio del 2012 per la Banca Mondiale. Sull’asse orizzontale la tavola riporta la popolazione mondiale in ordine crescente di reddito. Su quello verticale l’aumento del reddito registrato nel ventennio ruggente della globalizzazione fra il 1988 e il 2008.

I poverissimi, la coda dell’elefante, in questo lasso di tempo non hanno visto crescere il loro reddito, drammaticamente inchiodato, in particolare in Africa subsahariana, sotto la soglia dei due dollari al giorno. Per i due terzi più poveri il ventennio ha portato invece un impressionante aumento dei flussi in entrata, dal 40 all’80%, un incremento rappresentato nel disegno dal dorso del pachiderma, che ha ridotto l’indicatore di disuguaglianza globale (indice Gini) dalla quota 70 di metà anni 80 al 65 di oggi. Centinaia di milioni di persone in Cina, India e Indonesia sono uscite dalla trappola dell’indigenza e una buona fetta è addirittura entrata nella cosiddetta "classe media".

La quale classe media ha onorato in Occidente il conto della globalizzazione, registrando nello stesso periodo un aumento risicato del reddito e in alcuni casi, la parte bassa della proboscide, addirittura una riduzione. Il 5% più ricco della popolazione mondiale, infine, si è ulteriormente arricchito, con un aumento dei redditi fino al 60% per "l’élite delle élite": l’estremità superiore della proboscide, cioè, si è ulteriormente impennata. Il dato più preoccupante dell’ultimo rapporto Oxfam "Bene pubblico o ricchezza privata" realizzato in occasione del Forum di Davos è che l’analisi sui flussi nel 2018 dimostra come stia rallentando anche l’effetto di riduzione della disuguaglianza globale.

Lo scorso anno le fortune dei super-ricchi sono aumentate di 2,5 miliardi di dollari al giorno, mentre i redditi della metà più povera del pianeta si sono ridotti dell’11%. Confermando come, dopo la notevole diminuzione tra il 1990 e il 2015 del numero di persone che vivono con un reddito inferiore agli 1,9 dollari al giorno, ha ulteriormente rallentato, negli ultimi tre anni, il tasso annuo di riduzione della povertà estrema. Nel 2018 il crollo ha sfiorato il 40%.

Tradotto graficamente: si allarga la fetta di umanità che si posizione sulla coda dell’elefante, mentre la proboscide punta ancora in alto, rendendo precario l’equilibrio dell’«animale». L’unica leva sulla quale è possibile agire per invertire nuovamente il trend – e sfruttare ancora una volta, come negli anni Novanta, l’enorme potenziale generato dal progresso scientifico e tecnologico applicato ai mercati – è quella fiscale. Combattendo a livello globale elusione ed evasione, inasprendo la lotta contro i paradisi fiscali. E perseguendo con maggiore convinzione la strada dell’armonizzazione dei sistemi di tassazione, a partire dall’Unione Europea. Sistemi che registrano quasi ovunque, ammonisce sempre Oxfam, pure una perdita di progressività, il principio mutualistico per cui chi ha maggiori risorse contribuisce più che proporzionalmente, con le imposte, al bene comune.

È una leva, quella fiscale, che può ridurre la disuguaglianza, serbatoio del rancore, in crescita parimenti drammatica anche dentro i singoli Paesi e in primo luogo nelle economie avanzate: dagli Stati Uniti all’Italia, dalla Svezia a Israele. Nelle Nazioni ricche, in media, l’aliquota massima dell’imposta sui redditi delle persone fisiche è passata dal 62% del 1970 al 38% del 2013. L’unica fra le grandi potenze che ha provato a temperare l’inasprimento è la Germania: non immune dall’aumento delle disparità per quel che riguarda i flussi lordi di entrata, è riuscita, però, a contenere la disuguaglianza del reddito disponibile, quello cioè che rimane dopo aver pagato le tasse. Segno che nell’affrontare le forze della globalizzazione e del cambiamento tecnologico, quando alimentano la disuguaglianza, c’è ancora un ruolo per la buona politica. Se non abdica e si mette nella giusta prospettiva, grazie ai processi redistributivi la buona politica riesce anche oggi a governare l’elefante, evitandone la rovinosa caduta.

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