Resterà un grande candore
sabato 18 agosto 2018

Io non vivo in me ma fuori
Io sono manchevole io faccio
continuamente errori
Non so perché forse non più degli altri
Ma a me pare di farne di più…
Oh fuori ci sono gli alberi
Ci sono gli uccelli e i fiori.

Nicola Gardini, Io non vivo in me ma fuori


«Queste sono le ultime parole di Davide: "...Lo spirito di YHWH ha parlato attraverso di me, la sua parola è sulla mia lingua"... mi ha detto: "Chi governa gli uomini con giustizia, chi governa con timore di Dio, è come luce di un mattino quando sorge il sole, mattino senza nubi, che fa scintillare dopo la pioggia i germogli della terra"» (2 Samuele 23, 1-4). Anche se nella Bibbia Davide parlerà ancora (1 Libro dei re), per i Libri di Samuele queste sono "le ultime parole di Davide", come un testamento. Qui il re Davide parla da profeta, come chi ha ricevuto una nuova lingua con cui annunciare (nel suo caso anche cantare) la parola di YHWH – e terminerà il libro come sacerdote. L’autore sa che anche noi, giunti oramai alla fine della sua vita, possiamo testimoniare che Davide ha veramente detto parole diverse e più alte delle sue e delle nostre. Le ha dette mescolandole con parole basse, più basse e vili delle nostre; ma Dio ha parlato in Davide proprio dalle ferite della sua ambivalente umanità.

Dopo le ultime parole, il testo riporta alcuni episodi della vita di Davide, che per la loro natura e per i loro messaggi sono messi a epilogo della sua storia. Il primo riguarda una strana sete di Davide a Betlemme: «Davide ebbe un desiderio e disse: "Se qualcuno mi desse da bere l’acqua del pozzo che è vicino alla porta di Betlemme!». I tre prodi irruppero nel campo filisteo, attinsero l’acqua dal pozzo di Betlemme, vicino alla porta, la presero e la presentarono a Davide, il quale però non ne volle bere» (23,14-16). Episodio complicato, che ci dice qualcos’altro sui re molto amati dalla loro gente. Queste persone spesso godono presso la loro comunità di una tale venerazione e devozione che porta i loro seguaci a fare il possibile e l’impossibile per soddisfare i bisogni del loro "re", cercando di anticiparne i desideri, e non di rado anche i capricci. Questo tipo di capo carismatico sa molto bene di possedere un simile potere di incantesimo nei confronti delle persone fedeli, ed è molto tentato di farne uso e abuso. Questo racconto ci dice il cuore diverso di Davide: anche lui è tentato da quel suo capriccio e cede, ma sa pentirsi, cambiare idea e fare un gesto di lealtà verso i suoi uomini.

Questo episodio dell’acqua è incastonato all’interno della presentazione della trentina di guerrieri attorno a Davide, la sua guardia speciale. Il dettaglio più importante di questo elenco di militari e di gesta eroiche è l’ultimo nome, quello che chiude la lista: «Uria l’Ittita» (23,39), il soldato leale fatto uccidere da Davide per avere sua moglie Betsabea (cap. 11). L’autore non ha paura di porre a sigillo della parata militare di Davide, il nome la cui sola pronuncia parla al lettore biblico più di un trattato di teologia. La misericordia e la predilezione di YHWH per Davide, il re amatissimo, poeta e cantore di salmi stupendi, sono state più grandi della sua colpa. Ma la Bibbia ha voluto conservare il nome di Uria fino alla fine, non lo ha cancellato dal registro della storia di Davide, dal catalogo della vita e della morte. A ricordarci che i grandi peccati scavano cicatrici che segnano e cambiano il nostro corpo per sempre. Ogni volta che leggendo la Bibbia pronunciamo il nome di Uria, Davide continua a essere responsabile di quel peccato – perdonato ma non irresponsabile.

Il secondo episodio riguarda il censimento. Per una sua misteriosa ira, YHWH «incitò Davide contro il popolo in questo modo: "Su, fa’ il censimento d’Israele e di Giuda"» (24,1). Dio "incita" Davide ad agire male contro il suo popolo, lo "induce in tentazione" – c’è davvero tutta la Bibbia nella preghiera del Padre Nostro. Davide cede a questa spinta, e Joab completa il censimento: «C’erano in Israele ottocentomila uomini abili in grado di maneggiare la spada; in Giuda cinquecentomila» (24,9). Ma, dopo il censimento, Davide sentì il "rimorso" e disse: «Ho peccato molto per quanto ho fatto» (24,10). Perché indire un censimento era un "grande male"? I numeri in quel mondo mediorientale avevano un significato misterico e magico. Conoscere il "numero" di una realtà significava possederne il mistero, poterla quindi usare e anche manipolare. Passare dalla qualità (il popolo) alla quantità (il numero) riduce i gradi di libertà, lascia per strada tutte le altre dimensioni tranne quella racchiusa in quel numero, quasi sempre la più banale perché la più semplice. Così per il censimento: contare le persone significa manifestare una volontà di dominio, uno spirito di possesso delle "cose" che si contano, per dire che si è loro padroni. Ieri e oggi. Nell’umanesimo biblico il re non è il padrone del suo popolo, e quindi quel censimento aveva un forte valore teologico, negava la sovranità di YHWH sul suo popolo. In quel numero si insinuava il peccato di idolatria – nelle comunità ideali e spirituali, contare le proprie persone ha sempre un valore teologico, rivela volontà di potenza, mette in crisi la gratuità e la castità dei fondatori e dei capi.

Come risposta al pentimento di Davide, YHWH invia tramite Gad (un profeta-veggente) una parola a Davide: «Io ti propongo tre cose: scegline una e quella ti farò... Vuoi che vengano sette anni di carestia nella tua terra o tre mesi di fuga davanti al nemico che ti insegue o tre giorni di peste nella tua terra?» (24,12-13). Davide escluse la fuga davanti al nemico, e Dio mandò una peste che uccise settantamila persone. Davide offre se stesso pur di salvare il suo gregge: «Io ho peccato, io ho agito male; ma queste pecore che hanno fatto? La tua mano venga contro di me» (24,17). Come risposta al suo voto, Gad trasmette ancora a Davide la risposta di Dio: «Sali, innalza un altare al Signore nell’aia di Araunà» (24,18). Quell’aia, quel luogo della trebbiatura, dell’allevamento e uccisione degli animali, diventa ora l’altare di Davide-sacerdote, e in seguito il luogo su cui Salomone edificò il suo tempio – nel mio dialetto l’aia si dice ara, la parola latina per altare (forse per lo stesso intreccio di morte e di vita). Araunà si dichiara pronto a donare gratuitamente al suo re i buoi per l’olocausto e la legna per il fuoco. Ma Davide gli risponde: «"No, io acquisterò da te a pagamento e non offrirò olocausti gratuitamente al Signore, mio Dio"». Davide acquistò l’aia e i buoi per «cinquanta sicli d’argento» (24,24). Un dialogo che ricorda da vicino Abramo e il suo contratto con gli Ittiti per l’acquisto della tomba di Sarah (Genesi 23); e richiama ancora alla mente il nome di Uria, l’ittita. Per quella tomba Abramo pagò 400 sicli d’argento; ora il prezzo pagato è 50. L’autore (più tardo e più ideologico) del Primo libro delle Cronache (21,25) non si accontenterà di questa piccola cifra, la moltiplicherà per dodici e l’argento diventerà oro («600 sicli d’oro»). E invece è molto bella quella modesta cifra riportata da quell’antico scrittore, forse a dirci che nessun tempio vale una moglie, e che la terra per tempio che contiene l’Arca dell’alleanza vale un ottavo della terra che contiene una sposa.

In questo ultimo episodio ritorna anche il grande tema della fede economica. I sacrifici a Dio non valgono se non costano, se sono gratis. Una visione religiosa che considera la gratuità una moneta cattiva, che crede che Dio non apprezzi doni che costano nulla. Un’idea radicata molto profondamente anche nelle nostre relazioni sociali (che ci porta, ad esempio, a disprezzare doni che sappiamo essere riciclati), e che gli uomini hanno voluto estendere anche al rapporto con la divinità, imprigionando così anche Dio nella nostra logica commerciale – quando lo libereremo? Ma questo ultimo capitolo ci dice, ancora una volta, che la Bibbia ha amato Davide per la sua capacità di pentirsi e di ricominciare dopo aver sbagliato. Davide non è stato bello e amato per la sua vita morale, ma per un suo misterioso candore, quasi infantile. Per quel primitivo candore del pastorello che il peccato dell’uomo adulto non è stato capace di cancellare, che è rimasto più grande della colpa. Per poterci così donare il messaggio più importante della storia di Davide: quel misterioso candore, e quella innocenza infantile, resistono tenaci e operano in ciascuno di noi. Anche noi siamo più grandi della nostra colpa – e dobbiamo ricordarlo soprattutto nei tempi delle grandi colpe, nostre e degli altri.

Davide è entrato nella Bibbia come un ragazzo, e, in un certo senso, quel ragazzo non è mai uscito di scena. Ha saputo dialogare con le donne, ha ascoltato la voce dei profeti e dello Spirito, ha sentito un rispetto verso suo "padre" Saul, ha cantato, ha composto inni e poesia, ha pianto. Davide, il re e il padre più grande, è stato così grande perché non ha mai smesso di essere figlio. Forse per questo è stato molto amato, e continua ad esserlo. L’aia-ara di Araunà, nella tradizione biblica, si trovava sul Monte Moriah, dove un angelo di Dio salvò un altro figlio innocente. Perché, Dio e noi, amiamo molte cose, ma soprattutto amiamo i figli.

E anche questa volta, grazie a Dio, siamo arrivati alla fine. Domenica 2 settembre ripartiremo con una nuova serie sulle Organizzazioni a Movente Ideale, e sulle persone che le generano e vi lavorano. Come sempre e ogni volta diversamente, grazie a chi ha cercato di seguirmi in queste trentuno settimane. Grazie al direttore, Marco Tarquinio, il primo lettore di ogni mia riga, e che consente che il dialogo tra un economista e la Bibbia continui e, forse, maturi. Grazie a chi mi ha scritto, incoraggiato, criticato, con parole a volte splendide. È stato un commento lungo e ricchissimo di incontri. E come succede in ogni lettura biblica, le persone che si incontrano lungo la strada, non scompaiono quando si passa oltre. Restano vive, parlano, introducono e presentano gli incontri successivi, e si mettono a camminare con noi, fino all’ultimo incontro. E così al termine del cammino, ci si ritrova in una area popolata da tutte le donne e gli uomini che abbiamo conosciuto. Sta anche qui la bellezza della grande letteratura, e, in modo speciale, della Bibbia. In quell’aia di Araunà c’erano, invisibili, Anna, Samuele, Eli e suoi figli, Saul, Gionata, Betsabea, Abigail, Rispa, la strega di Endor, le due donne sagge, Ioab, Assalonne, Amnon. C’erano Tamar e Uria, insieme alle altre tante vittime, di cui la Bibbia conserva, per noi, le lapidi. E ci dona le sue parole per pregare, quando abbiamo esaurito le nostre; o quando, come in questi giorni a Genova, il troppo dolore ci toglie parole e fiato.

l.bruni@lumsa.it

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