Perché non finisce la guerra in Siria
sabato 10 febbraio 2018

Non è finita finché non è finita. La guerra in Siria è stata dichiarata conclusa dal presidente Assad e prima di lui dal presidente russo Putin: concordi entrambi sul fatto che la sconfitta del Daesh, la caduta di Raqqa e la scomparsa (misteriosa) di Abu Bakr al-Baghdadi avrebbero spento i focolai della rivolta armata. Due mesi fa qualcuno ha esultato. Altri hanno cominciato ad attribuirsi meriti e a ritirare parte delle truppe e dei mezzi schierati. Altri ancora hanno sperato che la vita potesse riprendere, sette anni dopo la Primavera soffocata nel sangue, l’inizio della sollevazione e gli interventi armati esterni.

E il punto è proprio questo. È questa la ragione per cui in Siria non è finita, nonostante sia stata dichiarata finita. I turchi non hanno ottenuto la sicurezza militare di avere davvero blindato i loro confini a possibili "infiltrazioni". E sono rientrati in forze per creare quella zona cuscinetto che garantisca Erdogan da qualsiasi spazio di azione dei «terroristi curdi». Ad Afrin si continua a sparare. E a morire. Come a Idlib, ultima ridotta di un conflitto che non vuole cessare. Rifugio di jihadisti, milizie filo-turche, filo-americane... Dove si spara, si salta in aria, si viene uccisi.

Ma non è finita, soprattutto per una presenza ingombrante, imprevista fino a solo un decennio fa: quella dell’Iran, diretta o indiretta, attraverso gli emissari armati libanesi di Hezbollah. Sono gli iraniani, affermano molti, la ragione del “ritorno” degli americani. Si spiegherebbero così le provocazioni armate, le truppe speciali stanziate soprattutto nel Nord, il silenzio imbarazzato dei russi davanti a massacri o «risposte ad attacchi» come quella compiuta da forze Usa l’altroieri a Deir ez-Zor, che ha causato oltre un centinaio di vittime in un battaglione di truppe di Damasco e di miliziani fedeli al presidente alauita.

La presenza di Teheran ha ribaltato da tempo gli equilibri, ha stravolto scenari geopolitici e scatenato paure che sembravano inimmaginabili. Anche tra le file di chi è sempre più vicino all’America, al suo presidente Donald Trump e all’intellighenzia che lo circonda: Israele.

Settimane fa era circolata una indiscrezione che è diventata sempre più concreta con l’annuncio di "Gerusalemme capitale" e del prossimo trasferimento dell’ambasciata a stelle e strisce nella Città Santa. Stati Uniti e Israele si sono impegnati «con ogni mezzo diplomatico», e non solo, a contrastare la presenza iraniana nella regione. Successivamente, sono cominciate le rivolte (represse) a Teheran e in altre città iraniane. Dopo quella sorta di impegno comune gli americani hanno annunciato l’ulteriore disimpegno di truppe e mezzi dall’Iraq, che resta comunque sotto tutela e che tra pochi mesi tornerà alle urne per sancire una situazione di stallo politico.

Contestualmente, l’Afghanistan sta vivendo una stagione di sangue che lo ha riportato ai tempi del «governatore di Kabul» Hamid Karzai, delle «offensive di primavera» dei taleban e delle bombe. Hotel assaltati, kamikaze che passano come un coltello nel burro le «difese passive» delle zone diplomatiche "protette". Dimostrando, se mai fosse stato necessario, che il successore di Karzai (Ashraf Ghani, eletto quasi quattro anni fa) non è riuscito ad allargare oltre la cerchia della capitale il controllo militare e politico, mentre il Paese resta spartito tra il Califfato nero e i successori degli studenti di teologia scacciati da Kabul.

Ma un secondo Afghanistan sta prendendo forma, o meglio l’ha già assunta da mesi. In Siria, infatti, restano ben piantati sui due piedi i turchi, i russi, gli americani, gli iraniani, gli sciiti libanesi, i mutanti del Daesh e di al-Nusra, ovvero i qaedisti. Un mosaico caotico e insanguinato, che si potrebbe anche "arricchire", e purtroppo la situazione non cambierebbe... La frammentazione del territorio è evidente, e a farne le spese, come sempre, è la popolazione inerme, provata da sette anni di guerra. Una guerra che cambia volto e ora, almeno in parte, è figlia della convinzione americana che non è finita finché non è finita (la presenza dell’Iran a ridosso delle sponde del Mediterraneo).

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