venerdì 26 marzo 2021
La salute è il risultato di processi anche economici, sociali, politici e ambientali. I rimedi devono essere di natura integrata e finalizzati alla lotta alle disuguaglianze
Perché curare i più poveri fa stare meglio anche i ricchi

Reuters/Vatican Media

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La pandemia da Covid-19 che dura da oltre un anno non accenna a rallentare il suo cammino: nel suo percorso ha travolto tante nostre convinzioni, mettendo a dura prova non solo la nostra salute ma anche il diritto di poterne godere. In questa sorta di tempo sospeso in cui stiamo vivendo abbiamo rischiato di perdere una delle più forti certezze della nostra Repubblica: il diritto ad essere curati in modo gratuito e dignitoso. In realtà si tratta più che altro di una sensazione: il senso di incertezza e di sbandamento associato al catastrofismo propagandato dai media hanno alimentato un senso di sfiducia verso il nostro Sistema Sanitario Nazionale.

Niente di più lontano dalla realtà: il nostro Ssn ha mostrato, in questo frangente pandemico, tutta la sua stoffa garantendo, pur tra mille criticità, il diritto alla salute ai cittadini italiani. E questo nonostante oramai da quasi un decennio sia stato vessato in modo sistematico e pervicace con tagli lineari al personale, ai posti letto e all’assistenza territoriale. Il SSN ha sbandato ma, nonostante tutto, ha retto l’urto in modo egregio, dimostrando che per fronteggiare le grandi crisi sanitarie è necessario un sistema uniforme, in grado di proporre risposte di grande respiro e non rimedi estemporanei a valenza locale. Come ben sappiamo, il virus Sars-CoV2 non si è limitato ad ingaggiare la realtà italiana, ma ha travolto il mondo intero. La diffusione del Covid-19 non ha rispettato i confini dei singoli Stati e neppure discriminato fra poveri e ricchi, ma ha drammaticamente impattato sullo stato della salute globale, la cosiddetta global health. Una delle chiavi di lettura del suo impatto la troviamo nel rapportarsi con i sistemi sanitari locali e nella loro capacità di fronteggiare la pandemia. Questo ha rappresentato il vero discrimine: gli Stati con un sistema sanitario ben strutturato sul territorio che hanno assunto provvedimenti forti di contrasto alla diffusione del Covid-19 hanno ottenuto i migliori risultati.

Se andiamo ad analizzare in particolare l’approccio alla pandemia di alcuni Paesi – in particolare dell’Africa Sub-sahariana, dell’America Latina e del Sud-est asiatico – notiamo come questo sia stato estremamente convulso, partendo da realtà con sistemi sanitari pubblici in pieno disfacimento, senza alcuna medicina del territorio e con un sistema ospedaliero fatiscente. È comprensibile come i responsabili della sanità si siano trovati in grande difficoltà in contesti come la Tanzania, dove il British Medical Journal rileva la presenza di 38 posti letto di terapia intensiva a fronte di 58 milioni di abitanti (l’Italia ne allinea circa 5mila per la stessa popolazione). In questi ambiti è altrettanto com- plesso coordinare delle efficaci misure di contrasto sociale: un lockdown si rivela un provvedimento assolutamente inadeguato in contesti socialmente fragili dove si vive in grande promiscuità (8-10 persone in un unico ambiente) e il cosiddetto lavoro informale (in Ecuador coinvolge il 50% della popolazione secondo l’Istituto Nazionale di Statistica) comporta la necessità di uscire di casa per procurarsi il cibo, ponendo una tragica alternativa fra il contagiarsi e il non mangiare.

Ma i dati provenienti da questi paesi si stanno dimostrando diversi da quelli tragicamente attesi: worldometers.info riporta percentuali estremamente basse di incidenza e mortalità da Covid-19 nelle regioni con una difficile situazione socioeconomica. Risultati che non ci devono ingannare perché sottengono una multifattorialità: se da un lato è ipotizzabile che ci sia stata una bassa diffusione del virus nelle regioni a clima caldo, dall’altra dobbiamo considerare due elementi dovuti al complicato contesto sociale: la difficoltà di giungere a una diagnosi per la carenza di test diagnostici e la rigida governance dei dati da parte delle autorità per impedire la diffusione di informazioni allarmanti o controproducenti. Ma l’impatto più violento della pandemia è stato sul versante socioeconomico, in particolare sulle classi sociali più esposte che in alcuni contesti ha significato gruppi etnici più indigenti (negli Usa ad esempio latini, asiatici, cinesi, ecc.) e in altri semplicemente il sesso femminile. In particolare l’Ocse (l’Organizzazione per la Cooperazione e Sviluppo Economico) ha calcolato nell’ultimo anno una perdita del prodotto interno lordo mondiale intorno al 4,5%, un dato che, dietro i numeri, nasconde un depauperamento generalizzato dell’intero pianeta dovuto anche al grande dispendio di risorse impiegate per fronteggiare la pandemia. Il Dipartimento per gli Affari Economici e Sociali delle Nazioni Unite ha registrato come tutti i programmi di sviluppo ne siano stati coinvolti: da quelli per la lotta alla fame o per l’accesso all’acqua sino ai progetti di contrasto alle disuguaglianze di genere. Tutti i progetti sono stati definanziati o rallentati per contrastare la diffusione del Covid-19.

Ma se le nazioni cosiddette ricche hanno potuto sopperire a questo sconvolgimento con risorse anche sovranazionali (si pensi solo al Next Generation Eu dell’Unione Europea), i Paesi del cosiddetto Sud del mondo sono stati costretti a uno sforzo finanziario eccezionale la cui conseguenza sarà un ulteriore depauperamento di sistemi sanitari già allo sbando con un danno aggiuntivo alla salute per molti lustri. Ma oltre a mortalità e morbilità chiaramente legate al Covid-19 dobbiamo annoverare molti effetti indiretti altrettanto gravi come la temporanea sospensione o la riduzione dei servizi sanitari essenziali (screening, trattamenti, follow up delle malattie cardio-vascolari, oncologiche, ecc.) e l’effetto paura e demonizzazione dei luoghi di cura da parte dei media con un conseguente allontanamento della popolazione dalle cure primarie. Fatto, quest’ultimo, presente su scala planetaria. Da tante strutture sanitarie nel mondo (dagli ospedali italiani a quelli delle pianure alluvionali del Bangladesh o alle Ande sudamericane) viene riportato un calo di affluenza dei pazienti sino al 50% con un danno alla salute che si rifletterà sulle future generazioni.

Ma la sfida più grande che ci aspetta nei prossimi mesi sarà quella per l’accesso ai vaccini anti-Covid. La battaglia planetaria è già iniziata con molti paesi ricchi, che rappresentano circa il 10% della popolazione mondiale, che si sono già accaparrati oltre 4 miliardi di dosi. Ma il vaccino non può e non deve essere una proprietà di pochi: rappresenta un vero e proprio patrimonio dell’umanità che appartiene a tutti così come tutti indistintamente siamo stati oggetto della pandemia. Qui il cerchio si chiude: se vogliamo coordinare una risposta efficace al coronavirus dobbiamo considerare un orizzonte globale così come lo è stato l’attacco del virus. Salute e malattia vanno considerate come risultati di processi non solo biologici, ma anche economici, sociali, politici e ambientali. E pertanto i rimedi dovranno essere di natura integrata, finalizzati alla lotta alle disuguaglianze: le sfide future non potranno riguardare solo il rafforzamento della sanità pubblica, della medicina del territorio e l’incremento della primary health care, ma anche la lotta alle differenze sociali, il miglioramento dell’istruzione, la tutela dell’ambiente e la conservazione del clima. Tutto ci rimanda alla necessità di una globalizzazione fondata non sugli egoismi ma legittimata dalla solidarietà e dalla ricerca del bene comune consapevoli che global health significa anche e soprattutto global justice.

Medico chirurgo, Azienda Ospedaliero-Universitaria Ospedali Riuniti Ancona

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