Immigrati: l'offensiva e le offese di Trump
giovedì 18 luglio 2019

Donald Trump è ripartito all’offensiva sui temi dell’immigrazione. Sono due i più recenti fronti di attacco: la "cattura" di duemila immigrati irregolari, su un elenco di un milione di condannati all’espulsione da parte dei tribunali, e la negazione della possibilità di presentare domanda di asilo negli Stati Uniti d’America per chi è transitato sul territorio di un altro Paese, ossia per quasi tutti i profughi che si presentano alle frontiere.

In realtà, il presidente Usa ha bisogno di tenere alta la tensione sul dossier immigrazione, esibendo una durezza senza precedenti e buttandosi a capofitto nelle polemiche contro i suoi oppositori, segnatamente in questo caso le deputate democratiche di sinistra. Deve infatti mascherare gli scarsi successi ottenuti in materia. Il famoso "Muro con il Messico" promesso ai suoi elettori è ben lungi dall’essere completato, e gli 11 milioni di immigrati irregolari residenti negli Stati Uniti sono ancora lì: più della popolazione della Svezia o della Lombardia. Mentre sull’economia Trump può vantare successi, che siano o no merito delle sue politiche, sull’immigrazione non autorizzata può soltanto promettere provvedimenti ogni volta più drastici.

L’intento fondamentalmente propagandistico delle espulsioni ordinate dal capo della Casa Bianca è dimostrato dal fatto che siano state annunciate in anticipo, rivelando anche le nove grandi città in cui avrebbero avuto luogo: da Atlanta a San Francisco, passando per New York e Los Angeles. Ad alcuni giorni dal blitz non si conoscono ancora i risultati, e molti dubitano che ce ne siano stati. Le operazioni dell’Ice (Immigration and Customs Enforcement), il temuto corpo di polizia che dà la caccia agli immigrati senza permessi, traggono forza dalla segretezza e rapidità delle operazioni. In questo caso i ricercati hanno avuto il tempo di barricarsi in casa, di spegnere tutte le luci e di rifiutarsi di aprire la porta. Per di più, diversi sindaci delle città in questione sono dalla parte di queste persone: hanno affisso manifesti per spiegare agli immigrati irregolari i diritti che comunque hanno nella democrazia americana, assicurando il loro appoggio. Molti dei ricercati sono, per di più, genitori di figli nati sul territorio degli Usa, e quindi cittadini del Paese.

Come per la chiusura nei confronti dell’asilo, il primo e fondamentale intento del presidente Trump è quello di galvanizzare i propri elettori. Si spiegano così anche i toni veementi con cui ha attaccato le giovani oppositrici democratiche di colore, apparsi eccessivi persino per un personaggio iracondo e spesso sopra le righe come lui. Anche nei suoi ultimi tweet, che è difficile non giudicare razzisti, c’era un messaggio per quella certa America profonda che lo vota: porre in dubbio l’appartenenza al Paese di cittadine e parlamentari che hanno origini terzomondiali, e rifiutare loro il diritto di criticare la politica attuale degli Stati Uniti, definiti «la più grande e più potente Nazione della Terra». Anzi, come altri leader nazional-populisti, ha presentato gli attacchi al suo operato come accuse «al popolo degli Stati Uniti».

La rinnovata campagna anti-immigrati ha però anche un secondo obiettivo, o comunque un secondo effetto, assai più deleterio: quello di condannare a vivere nel terrore e nell’isolamento milioni di famiglie, di indurle a non uscire più di casa, a non andare al lavoro, a non frequentare incontri comunitari, a non accedere ai servizi di cui avrebbero bisogno. Secondo una ricerca del Center of Migration Studies di New York, l’indurimento delle politiche federali ha provocato un aumento dell’accesso ai servizi di assistenza solidale e conforto spirituale della Chiesa cattolica.

Nello stesso tempo però il 57% dei responsabili intervistati osserva che la paura di essere catturati e deportati incide negativamente sulla partecipazione degli immigrati ai programmi di sostegno e alle attività religiose. Ancora una volta la caccia al consenso (e al diverso) eccita i sentimenti peggiori, compromette la vita di persone e famiglie già fragili, divide la società, senza produrre né soluzioni ai problemi né benefici per il Paese interessato.

Sociologo, Università di Milano e Cnel

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