martedì 22 settembre 2015
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La cifra con la quale andrà avanti a scandire le tappe di questo viaggio che guarda all’intera umanità e lega Nord e Sud America, Francesco l’ha già espressa nella prima giornata trascorsa interamente all’Avana. Una giornata pensata con cura. E l’ha espressa nei momenti del tutto ordinari di una visita pastorale: in una Messa comune, in un Angelus, nell’incontro con il clero e in quello serale con i giovani, nel quale, come spesso accade, ha messo da parte discorsi preconfezionati. E infine lì nel preannunciato incontro vis-à-vis con il vecchio Fidel. Qual è questa cifra? Quella che le sue parole-chiave pronunciate testimoniano: ponti, pace, servizio, riconciliazione, amicizia sociale, bene comune, cultura dell’incontro. Ciò significa servizio alla persona, supremazia del dialogo come metodo, e non come astuta strategia, e rigetto di ogni postura d’antagonismo ideologico, anzi di ogni «chiusura nelle conventicole delle ideologie o delle religioni» come ha efficacemente affermato al Centro Cultural della capitale. Ciò significa guardare avanti.
«Credo che oggi il mondo sia assetato di pace», anche «il vostro lavoro è fare ponti» aveva del resto già detto rivolgendosi ai giornalisti sul volo per l’Isola avanzando precocemente un’ouverture di significato a questo viaggio. E non per amor di retorica né per dare alimento all’apologetica papale, ma perché si tratta di guardare tutti all’unica strada realistica e pragmatica possibile da perseguire con audacia e determinazione. Perché da qui parte anche il fine della politica, che è la realizzazione del bene comune e la collaborazione nelle responsabilità e nel rispetto delle diversità e delle differenze di chi abita la casa comune. Da qui «la speranza "autoconvocatrice" di un popolo che sa convocarsi per darsi un futuro». Non chiusure, non scontri e separazioni, ma menti aperte per lavorare insieme al bene comune è la scommessa per il presente e per il futuro: «Amicizia sociale è cercare il bene comune. L’inimicizia sociale distrugge. Una famiglia si distrugge per l’inimicizia. Un paese, il mondo si distrugge per l’inimicizia. E l’inimicizia più grande è la guerra e oggi il mondo si sta distruggendo per la guerra perché non sono in grado di sedersi e negoziare» ha ribadito Francesco nell’ultimo appuntamento della sua giornata all’Avana. «Essere al servizio del dialogo non significa essere al servizio delle parole che non servono a niente perché è solo astuta strategia».
Il compito «è aiutare a superare le differenze storiche, a superare il passato, costruire ponti per aiutare tutti a fare lo stesso. Se si aiutano i Paesi che sono stati in disaccordo a riprendere la via del dialogo – ha affermato papa Bergoglio – questo apre nuove possibilità per tutti. Non è irresponsabilità, ma coraggio e audacia per il presente e per il futuro». Una responsabilità che investe direttamente la Chiesa. Il richiamo al servizio perciò, «che dal momento che serve le persone non è mai ideologico» vale per i castristi e gli anticastristi. Così l’invito all’umiltà e alla povertà al clero perché i membri della Chiesa non alimentino le componenti revansciste ma siano strumento di riconciliazione. Gli strappi e le ferite vanno ricucite. Perché la questione cubana al fondo che cosa dimostra? Dimostra il fallimento della politica muro contro muro. Dimostra che questa politica non funziona. Non ha funzionato. Storicamente non ha funzionato. La pretesa di rovesciare il castrismo con la politica della chiusura pregiudiziale e ideologica, con l’embargo, hanno solo portato a un irrigidimento per il quale si è trascinato il mondo fin sull’orlo di una crisi nucleare e un Paese è rimasto congelato per cinquant’anni.
Per questo l’apertura dei rapporti diplomatici tra Cuba e Usa e la decisione del Papa di fare tappa prima nell’Isola, non può essere derubricata agli interessi visuali di un latinoamericano. «Cuba si affaccia verso tutte le direzioni, con uno straordinario valore come "chiave" tra Nord e Sud, tra Est e Ovest. La sua vocazione naturale è quella di essere punto d’incontro perché tutti i popoli si trovino in amicizia». Il viaggio di Francesco assume così una valenza simbolica ed emblematica per la comunità internazionale nel ripensare alla politica internazionale. Mostra che un’altra strada è praticabile. L’appello per le trattative di pace in Colombia che si stanno ora svolgendo a Cuba, pronunciato all’Angelus di domenica affinché «non si abbia un nuovo fallimento in questo momento», è sempre nella medesima direzione senza che il Papa ne avochi a sé la supremazia. Tutti siamo responsabili, anche la Chiesa. Non solo il Papa, ma l’intera comunità, compresa quella ecclesiale. E l’intera comunità ecclesiale può dare esempio. Un esempio che è apparso trasparente persino nella modalità dell’incontro personale sommesso e familiare avuto con l’anziano líder máximo. Nel presentarsi con umiltà e con attenzione umana alla storia personale. 
Quello che si è svolto all’Avana è una vera lezione di cui tutti, popoli e nazioni, abbiamo urgente bisogno, soprattutto quando, come è stato osservato, i seminatori e i professionisti della divisione e dell’antagonismo, anche quelli mascherati da integerrimi difensori della buona dottrina e dei valori, distorcono e banalizzano facendo credere che questo non è possibile. Se il passaggio di Francesco nell’isola ponte dei Caraibi ha inferto il colpo fatale alla guerra fredda nel continente americano, quello che rimane da curare sono le metastasi sopravvissute anche oltre oceano di quella guerra come strumento non solo della politica annidatasi nelle coscienze. È questo in fin dei conti l’ultimo baluardo da vincere.
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