La «ribellione» vissuta da cattolici, e mai da soli
sabato 25 aprile 2020

Caro direttore,
«In vita mia non ho mai odiato nessuno, nemmeno tra quanti ho combattuto nella Resistenza, alla quale avevo aderito non per odio ma per amore» (Benigno Zaccagnini). «Ero impegnato in parrocchia, a lungo educato dal nostro parroco al valore dell’amore del prossimo. Di politica sapevo poco. Conoscevo però il comandamento dell’amore» (Ermanno Gorrieri).

«Ero una ragazza dell’Azione Cattolica di nemmeno sedici anni. Vedendo quelle persone impiccate nella piazza del mio paese, ho deciso di prendere la bicicletta e raggiungere mio padre e i miei amici alla macchia» (Tina Anselmi). Quanti giovani cattolici, dopo il radiomessaggio di Pio XII del Natale 1943, presero la decisione di unirsi ai combattenti comunisti, socialisti, liberali, azionisti e monarchici, per combattere l’occupante nazista e il suo alleato fascista.

Superando anche dubbi laceranti sull’uso delle armi. Alcuni scelsero addirittura di farlo senza armi: non fu una scelta di comodo perché comunque partecipavano a tutte le azioni, correndo i rischi degli altri combattenti e qualcuno in più, proprio perché erano disarmati. Tra loro tre futuri padri costituenti, Giuseppe Dossetti, Pasquale Marconi e Benigno Zaccagnini stesso, che nella fondina al posto della rivoltella teneva il rosario.

E poi i tanti sacerdoti che nascondevano nelle canoniche i ribelli («ribelli per amore», come si dice nella preghiera di Teresio Olivelli e Carlo Bianchi), o i monasteri femminili che i ribelli sfamavano, curavano e proteggevano. Poi gli scout delle “Aquile Randagie”, il primo raggruppamento cattolico di ragazzi “apoti” nato già nel 1928. E i giovani cattolici siciliani che, potendosene stare tranquillamente in una terra già liberata, vollero combattere per liberare l’Italia del nord occupata, come i fratelli Di Dio, che diedero la vita, il mitico capitano Morello (Giuseppe Burtone), Giovanni Rocchetti e tanti altri.

Anche se, va detto, la maggior parte dei giovani cattolici combatté fianco a fianco con chi credente non era, nelle brigate Fiamme Verdi, o della Libertà o Garibaldine. Ma sempre con tormento interiore per l’uso della violenza, ritenuta inevitabile, ma anche proporzionabile alla sola misura necessaria alla difesa. «Quando si doveva compiere un’azione, la nostra preoccupazione era sempre per i civili che potevano incolpevolmente diventare bersaglio della rappresaglia nazista» (Ermanno Gorrieri).

Tutto ciò non ha impedito ad alcuni di loro di diventare comandanti generali, distintisi per grande spessore politico e ardimento militare, in cui si riconosceva l’intero movimento partigiano, come Enrico Mattei, Paolo Emilio Taviani, Domenico Sartor, Gorrieri stesso e tanti altri. Così come non si può tacere la testimonianza di vero eroismo di tanti laici e sacerdoti deportati e sacrificati nei lager, fra tutti ricordiamo due che la Chiesa ha voluto beatificare: Odoardo Focherini e Teresio Olivelli, entrambi passati dal Campo di Fossoli.

La maggior parte, però, combatté con diligenza, lealtà e distacco personale, nei “ranghi” anonimi del movimento resistenziale. In silenzio, senza cercare, una volta conquistata la libertà e la democrazia, riconoscimenti, onori e favori, semplicemente appagata di aver adempiuto a un dovere e a una testimonianza. Va aggiunto, peraltro, che l’apporto più importante dei resistenti cattolici fu di natura squisitamente politica e riguardava la delineazione di un orizzonte che andasse oltre la guerra. Gestire il presente pensando al futuro. E dal futuro trarre la forza e la speranza per uscire dal presente. Con la certezza che ci sarebbe stato un dopo, un domani che sarebbe stato così come era stato pensato e costruito.

Qualcuno, in questo tempo di lutti e sofferenze per la pandemia da Convid–19, ha tentato di ipotizzare un paragone con la guerra e con la lotta di liberazione. No, la pandemia è una malattia che va semplicemente curata, visto che l’umanità non è stata in grado di prevenirla. Un nemico, se vogliamo chiamare in questo modo il virus, non di fronte a noi ma dentro di noi. Gli unici intrecci con il 25 aprile che mi vengono alla mente sono, da un lato la triste constatazione che questa malattia si sta portando via gran parte degli ultimi testimoni di quel lontano giorno di settantacinque anni fa e che ancor più ora tocca alle nuove generazione di essere testimoni dei testimoni, e dall’altro il dovere di non disperare mai, anzi di sperare e continuare a chiedere alla sentinella di cui parla Isaia “quanto resta della notte?”, sapendo che dopo la notte “viene il mattino e poi anche la notte”.

Di farlo possibilmente con lo spirito con cui don Zeno Saltini all’indomani della guerra entrò nel Campo di Fossoli, con un esercito di decine e decine di ragazzi orfani divenuti orfani in quella stagione, abbattendo muri e fili spinati e portando serenità e voglia di vivere laddove c’erano stati dolore e morte. Dopo la pandemia, come ha detto Gino Strada ad “Avvenire”, «mai più il mondo di prima». Ma dovremo lavorare sodo. E crederci.

Presidente della Fondazione Fossoli

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