Noi, qui, come Colombo davanti alla «candelilla»
giovedì 19 novembre 2020

«Como una candelilla que se levava y que se adelantaba » (come una piccola candela che si alzava e si agitava). Queste parole sono di Cristoforo Colombo, quando nella notte del 12 ottobre 1492 la sua caravella arrivò finalmente in prossimità del Nuovo Mondo. Era una notte immensa nell’oceano, e dopo settimane di aspra navigazione la bussola segnava ormai il Polo Sud e non il Nord, e i marinai, quasi tutti ex carcerati, credevano a un maleficio, e volevano ammutinarsi. In quel momento, dal ponte Colombo scorge quella luce da niente. Come una piccola fiamma che arde e il vento smorza, e poi si rialza. Forse un falò di una comunità di nativi, su una collina. Ma che urto al cuore, nel buio, deve essere stata per Colombo e i suoi quella luce. Si saranno chiamati l’un l’altro, dalle stive ai giacigli dove alcuni dormivano; saranno saliti di corsa, svegli di colpo, per le ripide scalette di legno, fin sul ponte, indicandosi quel piccolo punto nella notte, gridandosi: ' Mira! Mira!' Perché quella luce poteva volere dire solo una cosa: terra, quindi salvezza. Leggendo l’altro giorno questo particolare della traversata di Colombo, la candelilla incerta mi è rimasta in mente. Perché un poco anche noi da mesi siamo come in alto mare, scalzati dalle nostre certezze, sbalorditi davanti a un male che – incredibile – tutta la nostra scienza non riesce a guarire. Anche noi in qualche modo abbiamo perso la bussola, e il nostro mondo ci appare rovesciato.

Ogni giorno autorevoli virologi annunciano che l’ondata di morti deve ancora arrivare, che a Natale andrà peggio, che la pandemia è ben lontana dal finire. O forse no. E tuttavia, in Lombardia almeno e a Milano il famoso indice di contagio, l’Rt, ha cominciato a calare, pur restando oltre la soglia accettabile. Era a 2, e ora si attesta intorno all’1,2. A Milano ce lo diciamo con un cauto sollievo, e quasi col timore di dirlo troppo presto, da sotto le mascherine che rigorosamente indossiamo: quell’indice sta scendendo. Come quando, nella piena di un fiume, si nota che il livello dell’acqua, pur lentamente, si abbassa. L’Italia è sì, al momento, ormai quasi tutta 'rossa-arancio'; però sui vaccini in arrivo (sono più d’uno) ci dicono si possano nutrire fondate speranze, e che da gennaio si comincerà a vaccinare medici e infermieri, e i più fragili. Siamo in un tunnel nero, soprattutto se pensiamo alla crisi conseguente il Covid, alla disoccupazione, a chi non ha più nemmeno da mangiare. Eppure, in fondo al tunnel sembra di scorgere una minima luce, qualcosa che, senza quasi che abbiamo il coraggio di ammetterlo, alimenta un poco di speranza. E la speranza, lo sappiamo, è la forza fondamentale che ci spinge: è del tutto diverso camminare nell’oscurità totale, o invece intravvedendo, se pure lontana, una via di uscita. (La Speranza, scrive Charles Peguy, «è una bambina da nulla (..) eppure è questa bambina che traverserà i mondi»).

In quella fievole luce possiamo immaginare che la pandemia e il lockdown potranno finire, che i nostri ragazzi torneranno a scuola, che le nostre città, così tristi e silenziose, si rianimeranno, che ai nostri cari malati potremo stare accanto in ospedale, come è umano e giusto. Possiamo immaginare perfino che in primavera potremo andare a mangiare in campagna, all’aperto, e che i figli e i nipoti bambini correranno di nuovo intorno alla tavola. Immaginare di tornare a una vita non minacciata dalla pandemia, a quella 'normalità' che ora ci appare così bella – e di cui non c’eravamo mai accorti. Troppo presto per sperare, con centinaia di vittime al giorno? Può darsi. Ma sperare è fondamentale, e ai segni, anche se piccoli, bisogna stare attenti. Come quella « candelilla que se levava y que se adelantaba », una fiamma da niente che annunciava il Nuovo Mondo.

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