Ma non è soltanto un fatto di anagrafe
mercoledì 19 settembre 2018

La notizia ha avuto un certo risalto, ma minore di quello che merita (lode quindi a questo giornale per il puntuale commento di Francesco Ognibene pubblicato venerdì 14 settembre): il Consiglio comunale di New York ha deciso che nel certificato di nascita di chi è venuto e verrà alla luce in quella metropoli si potrà apporre l’indicazione 'gender X' da parte di chi non si riconosce né nel genere maschile né in quello femminile. La decisione indica esplicitamente che questa possibilità sarà riservata anche ai genitori per designare i propri figli neonati.

Esultano i movimenti transgender, proclamando New York come «campione mondiale di uguaglianza». Lo speaker, il presidente, dell’assemblea cittadina Corey Johnson, un democratico come il sindaco Bill de Blasio che ora firmerà la legge comunale che entrerà in vigore dal primo gennaio 2019, ha sottolineato come «i newyorkesi non avranno più bisogno della documentazione di un dottore per cambiare il proprio genere sul certificato di nascita e non saranno più trattati come se la loro identità fosse una questione medica».

Alcune rapide osservazioni. La questione delle disforie sessuali e del cambiamento di sesso è, in sé e per sé, una questione estremamente complessa: sociale, religiosa, culturale, sportiva, psicologica, medica. Negarlo è segno di ingenuità epistemologica. Ciò si cui si può discutere (anzi che è doveroso discutere) è se, come questione medica, essa abbia o no ricadute giuridico-sociali (per esempio, anagrafiche). Personalmente ritengo che un documento di identità possa anche fare a meno dell’indicazione dell’identità sessuale del titolare (come, di fatto, è caduta in moltissimi Stati secolarizzati l’indicazione della sua identità religiosa). So bene quanti problemi possono derivare da questa decisione (e sarebbe bene che la pubblica opinione ne fosse adeguatamente informata), ma non ritengo che la sostanza della questione sia anagrafica. Ha un ben altro spessore. Il buon Johnson si illude che basti questa delibera per fare davvero di New York la città «campione mondiale di uguaglianza».

Ma non voglio infierire. La sostanza autentica della questione è che il problema della sessualità è uscito dal cono d’ombra nel quale tutte (ripeto tutte) le culture (religiose, etniche, politiche, linguistiche, ecc.) l’avevano collocato da che mondo è mondo, accettando come auto-evidente la grande dicotomia maschio/femmina e fondando su di essa l’equilibrio sociale. Questo cono d’ombra ha cominciato a conoscere vistose incrinature grazie ai movimenti (politici, religiosi, antropologici, ecc. ecc.) di 'liberazione della donna': movimenti sacrosanti, ma che hanno aperto problemi con i quali stiamo ancora facendo i conti (basti pensare alla questione delle molestie sessuali!). Ma oggi assistiamo – per chi ha gli occhi per vedere – che la questione si sta allargando e pensare di risolverla proclamando che la questione dell’identità non è questione medica è solo un’indicazione di quando grossolane possano essere le ideologie del 'politicamente corretto'.

Il primato mondiale (piaccia o non piaccia) detenuto dalla cultura americana e il mito di New York, la 'grande mela', sono così potenti che una piccola rivoluzione anagrafica, che statisticamente coinvolge solo una decina di milioni di esseri umani, potrebbe avere ripercussioni mondiali imprevedibili. Ecco perché mi piacerebbe che la questione si allargasse. Lasciamo i newyorkesi che lo vogliono ad autocompiacersi del loro progressismo, e cerchiamo di porre la questione per quello che essa è: una reale, grave questione antropologica, che prima che esaltazioni o condanne richiede un nuovo impegno di studio multidisciplinare, di cui per ora si percepiscono solo vaghe e generiche avvisaglie.

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