martedì 1 novembre 2022
Le minoranze etniche arruolate da Mosca per combattere hanno visto nella mobilitazione un sopruso. E il prolungarsi del conflitto, con sempre più vittime, alimenta la delusione
Poliziotti russi trattengono una donna durante una manifestazione contro la mobilitazione militare

Poliziotti russi trattengono una donna durante una manifestazione contro la mobilitazione militare - Ansa

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Il cerchio non pare chiudersi secondo i piani di Putin. Se è vero che il potere del presidente russo è in declino, bisogna guardare con attenzione la sequenza di passi “tattici” interni realizzati in questi 8 mesi di guerra. Tra questi, la strategia della mobilitazione, che si è formalmente chiusa solo in queste ore. Dopo la primissima fase in cui l’esercito era costituito da ragazzi di leva inabili a esercitare il ruolo dell’aggressore che uccide civili che parlano la tua stessa lingua e hanno lo stesso volto di tuo fratello, è venuta la fase dei ceceni di Khodyrev che invece il “mestiere” lo hanno esercitato. Poi è venuto l’arruolamento mirato delle minoranze etniche.

La mobilitazione ha pescato in minima parte nella zona più “europea” del Paese e ancora meno a Mosca e San Pietroburgo. In Daghestan sui canali indipendenti si denuncia l’ipocrisia dell’appello di Putin a combattere per difendere il “Russkij Mir” (il Mondo Russo) il cui cuore – sottolineano – è slavo e di religione ortodossa. Identità e credo che non appartengono loro. Fuori dal controllo della censura, ci sono account che rilanciano le ragioni per cui la mobilitazione mira più a colpire i popoli che non sono benvisti da Putin e viceversa. Rimarcano come, a causa della necessità di trovare un lavoro, e in assenza di sufficienti mezzi per difendersi dalla mobilitazione forzata, i daghestani siano finiti per essere duramente colpiti da questa guerra. In particolare in termini di soldati che non torneranno più o che stanno tornando mutilati. Eppure le promesse di compensi lauti o quantomeno certi, e le storiche tradizioni guerriere dei daghestani, hanno garantito risposte alla chiamata di Putin.

Altro esempio è la Repubblica dell’Altaj. Pure qui, attraverso account indipendenti si parla apertamente di “genocidio” visto che le reclute fino al 90% sono il frutto di una selezionate tra i giovani nativi e originari di quella terra. Vale soprattutto per i buriati. Ormai non più solo media indipendenti, ma pure deputati della Camera della Buriatia si chiedono se esiste una strategia politica dietro le scelte tattiche militari di Mosca. Vedi il caso del famoso battaglione “Bajkal”. Fatti ricostruiti dalla “Novaya Gazeta Europa” ne documentano il quasi totale annientamento in una battaglia alle porte di Kherson. E che accentuano il malessere tra la popolazione. Con la continua crescita di caduti e mutilati s’intensifica e si fa più incalzante la domanda sulla ragione di tutto questo. E i siti indipendenti l’accompagnano con considerazioni tutt’altro che benevoli nei confronti dei signori di Mosca, ritenuti più interessati a preservare potere e preziosa qualità della vita, che a difendere la patria comune. Così, giorno dopo giorno, l’aria è cambiata.

Lungi dall’essere la proclamazione di diritti fondamentali dei popoli, della libertà dell’Ucraina a scegliere il proprio destino o della necessità della democrazia in Russia, a emergere è il senso di distacco dai “poteri forti” che tolgono la vita ai ragazzi e continuano ad accaparrare grandi risorse. Anche un’alluvione, con la condizione dissestata delle strade, diventa così motivo per sollevare la protesta e collegarla al prezzo della guerra. In un post da Machachkala con le immagini dell’acqua che invade le strade si dice: «Le persone che non sanno come rivendicare i propri diritti meritano una vita simile? Non sorprende che veniamo spinti al massacro e così gentilmente moriremo!». C’è indignazione per l’offerta gratuita di bare e servizi funebri promossa dalla propaganda di regime. Ogni giorno arrivano anche video in cui gli arruolati con l’ultima mobilitazione denunciano le condizioni in cui si trovano. Senza più coprire il volto, dicono di non essere equipaggiati, di sentirsi abbandonati, di non avere ricevuto formazione e addestramento, di doversi procurare loro stessi cibo, medicine e perfino i tamponi e lacci per fermare il sangue delle ferite. Alcuni raccontano di trovarsi in zone dove il freddo è arrivato, costretti a dormire all’aperto senza neanche un sacco a pelo. Testimonianze che non sono più rilanciate solo da account indipendenti, ma che emergono nei social di media locali con appelli che invitano a non presentarsi in caserma, a non frequentare spazi dove c’è il rischio di essere arruolati e, se ormai ci si ritrova in armi o già al fronte, a rivolgersi a numeri di telefono o indirizzi mail appositamente creati per chiedere aiuto e sfuggire alla guerra. L’invito è a non rassegnarsi a diventare carne da macello e il messaggio principale è “Salvatevi la vita e non uccidete”.

L'ho verificato e scritto più volte in questi mesi: la censura in Russia ha colpito i media, le organizzazioni della società civile e i gruppi politici indipendenti ma non è riuscita a impedire il dilagare della controinformazione più o meno organizzata. Un controcanto che, probabilmente, sta contribuendo a un’inedita presa di coscienza diffusa e di partecipazione. Nelle case e sul web la catena perpetua del rilancio delle notizie non si è fermata mai. E i social network fanno rapidamente il resto. Qualcosa che Putin non aveva valutato con attenzione. Questa onda d’urto è come l’acqua. Non si ferma con le mani, nemmeno quelle della Fsb (la polizia segreta). Permea spazi e menti, nel bene e nel male. È una lotta solo in parte impari rispetto ai mezzi della propaganda putiniana, perché viaggia comunque su strade e sensibilità che raggiungono chi è sempre meno disponibile a dare credito alla versione ufficiale del potere, chi a partire dall’apatia sta maturando insofferenza. Quindi, non più soltanto coloro che sin dall’inizio si sono espressi contro la guerra. Secondo dati riportati dalla politologa Ekaterina Shulman di Radio Eco di Mosca ora operativa da Berlino con la sua trasmissione “Status” su Youtube, questa insofferenza si può misurare anche dal grado di share delle tv che è sceso visibilmente rispetto all’inizio della guerra.

È uno scollamento percepibile anche in angoli remoti del Paese, lontano da Mosca. Proprio nelle aree dove con la mobilitazione Putin aveva più pescato, contando sulla povertà e il bisogno di lavoro a qualunque prezzo. Il prezzo però diventa sempre più alto e la domanda sul perché di tutto questo cresce. Non si vede la fine di questa guerra, si vedono le conseguenze sulla propria vita. Tutto ciò è spesso considerato in occidente con sufficienza. C’è l’idea che la periferia non conti. E considerare poco e male il “blob” di coscienza diffusa che esiste pur con tutti i suoi limiti, dovuti a mancanza di strutture organizzate in grado di agire per resistere alla repressione permanente del regime, è nella migliore delle ipotesi un errore causato da poca conoscenza, e nella peggiore il frutto di un’idea che vede la gestione delle cose e del mondo solo nelle mani dei grandi e dei potenti. Ignorare quello che in questi mesi è accaduto e continua ad accadere anche nel corpo e nella mente del popolo russo sarebbe, però, miope. Una sottovalutazione che si sente anche per l’insufficiente solidarietà e il minimo sostegno accordato a chi è contro la guerra in Russia.

È ancora fresca la notizia dell’ennesimo prolungamento della carcerazione di Alexandra Skochilenko, che resterà in prigione fino all’aprile del 2023. La sua colpa è grave: ha sostituito i cartellini dei prezzi in un supermercato con messaggi contro la guerra. Alexandra è una semplice ragazza. Non gode della notorietà del politico Navalny che il Cremlino teme e ha rinchiuso in un carcere speciale sine die. Ma Alexandra fa paura proprio per la sua freschezza e semplicità. Anche Putin comincia ad accorgersene. Noi occidentali molto meno.

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