sabato 20 agosto 2022
Il giornalista, nato a Salerno, cresciuto nelle estati a Positano, ha scelto Amalfi come patria elettiva. «Questa casa è il simbolo delle mie radici, fatte di dolore e di bellezza»
Michele Santoro, 71 anni, giornalista, conduttore e autore tv

Michele Santoro, 71 anni, giornalista, conduttore e autore tv - .

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In viaggio con alcuni protagonisti della vita italiana nei paesi a cui sentono di appartenere «Il mare visto da qui sembra bellissimo, con tutte le barche illuminate sotto di me, ma può diventare minaccioso, fa paura, è una sintesi della vita che ti fa riflettere su questo intreccio. Io non saprei apprezzare la bellezza se non ricordandomi del dolore ». È un Michele Santoro inedito, riflessivo e un po’ malinconico quello che dalla sua terrazza a picco sul golfo di Amalfi accetta di aprire i cassetti più intimi del cuore per raccontarci qual è il luogo dove il volitivo giornalista trova pace e serenità. «Amalfi è un luogo del cuore, una sorta di patria elettiva. Io sono nato a pochi chilometri di distanza, a Salerno – racconta –. Questo è un luogo che ho scelto, la mia vita è stata molto segnata dalla costiera amalfitana: mia madre è nata in un paesino, a Scala, e quando lei è morta mio padre si è risposato a Positano».

Il pensiero di Santoro, oggi a 71 anni, va al piccolo Michele che correva da un negozio all’altro per aiutare la famiglia. «Ho passato qui molte delle mie vacanze, da ragazzino collaboravo ad attività familiari molto fiorenti. Erano gli anni della moda mare Positano e io facevo il tuttofare dei negozi. La mia famiglia ne aveva due, più una attività artigianale – racconta facendoci fare un tuffo nella dolcevita degli anni 60 –. La mia 'nonnastra' è stata una delle primissime artigiane di Positano, faceva delle maglie meravigliose di lana, per uomo e donna. Uno dei suoi clienti era Eduardo De Filippo. Lui portava sempre queste maglie con il collo a barca, blu con bordino bianco su pantaloni bianchi». La memoria di Santoro è un fiorire di aneddoti sul grande autore, di cui lui ha un ricordo netto. «Eduardo aveva una casa su uno scoglio di Nerano, l’ho incontrato moltissime volte. Lui era un tipo abbastanza sulle sue. Aveva un cane molosso con cui andava in giro, la gente non si avvicinava facilmente – sorride il giornalista –. C’era una leggenda fra i commercianti, che lui pagasse anche piccoli acquisti con gli assegni, che poi la gente non cambiava. Invece io so che era una persona generosissima con i poveri, con i ragazzini finiti nelle carceri napoletane, si commuoveva quando ne parlava».

E a momenti il piccolo Michele finisce per diventare un baby attore. «La mia nonna acquisita lui la chiamava Mariannina. Ricordo che io avevo 8 o 9 anni e lui doveva girare uno sceneggiato tv. Eduardo voleva fare un casting di bambini e chiese a mia nonna di farmi partecipare. Lei rispose di no, 'suo padre vuole che studi'. Anni dopo lo reincontrai per un’intervista e mi presentai: 'Maestro, si ricorda? Sono il nipote della Mariannina'». Sorride a quei ricordi che addolciscono il cuore. «Amalfi è il luogo dove risiedo, ma tutta la costiera amalfitana è il luogo degli affetti, è come fosse un unico paese. Se stai in alto verso la collina, da Agerola parte il sentiero degli Dei, cammini sulla costiera, è una passeggiata che ti lascia sbigottito dalla bellezza...».

Luoghi splendidi legati anche a un grande dolore, quando Santoro all’età di 6 anni perse sua madre morta di parto. «Ho un ricordo molto forte del funerale di mia madre: era una giornata di sole, avevo 6 anni e stavo vivendo il dolore più terribile della mia vita, ma tutto si svolgeva in u- na atmosfera paradisiaca – si commuove come se il tempo non fosse mai passato –. C’era questa strada piena di fiori, il corteo funebre camminava avendo di fronte Ravello. Questo ricordo mescola il dolore alla meraviglia e a un senso di dolcezza». Fra mamma Gioconda e papà Leonardo è stata una grande storia d’amore interrotta quando lei aveva solo 27 anni. «Mio fratello è nato, poi ho avuto un altro fratello e due sorelle. Papà si è risposato presto, era un macchinista delle ferrovie, era sempre su un treno e non voleva che i suoi figli vivessero lontano da lui – spiega –. Mio padre era un patriarca, quando andava a lavorare ci schierava come i soldatini per salutarlo e baciarlo. Era un rito con cui ci dava il senso dell’importanza di quello che andava a fare. I macchinisti erano al 99,9 per cento comunisti. Erano molto solidali fra loro, sentivano il destino del Paese sulle spalle, avevano l’orgoglio di una aristocrazia operaia. Lui però non era un comunista ortodosso, nonostante le sue idee sul piano internazionale non era filosovietico. Mia madre era una anarchica e ricordo ancora i litigi durante i fatti di Ungheria».

Un padre per il quale il valore fondamentale era lo studio, al quale non voleva si premettesse la passione politica, come invece faceva il ribelle Michele negli anni 70. «Una volta creato un percorso professionale, poi si poteva essere impegnato politicamente. Ha mandato tutti e i 5 figli all’università con il suo solo stipendio». Ma nel cuore restano quelle estati a Positano, nonostante non ci fosse molto tempo per divertirsi. «Mio padre d’estate mi sbatteva a Positano, erano anni in cui le famiglie positanesi stavano aggredendo il futuro con una combinazione fra turismo e artigianato – ricorda –. Crescevano a velocità supersonica, ora devi andare in Thailandia per vedere una cosa del genere. Cucivano un vestito e un pantalone in poche ore. Da mia nonna ordinavano la maglia la mattina e la sera era finita.

Già da ragazzino facevo una vita laboriosa, correvo da una parte all’altra a fare consegne o spedire pacchettini alla posta». Il mare rimane però il luogo in cui i pensieri del combattivo giornalista di Samarcandae Annozero si placano, oggi come allora. «Ogni tanto avevo la libera uscita. Per fare il bagno prendevo una barchetta a mare, e a 10-11 anni me ne stavo da solo, sono un tipo abbastanza solitario. Guardavo il mare, a volte pescavo qualcosa, ero molto in contemplazione della natura e del mare e anche oggi questo mi rimane, anche se esco con la mia barchetta con la mia famiglia. Riesco ad isolarmi, apprezzo questi momenti in cui mi perdo da solo nei miei viaggi mentali».

A proposito di famiglia, è stata la moglie di Santoro a spingerlo ad avere una casa ad Amalfi. «Io non avevo bisogno di una casa per vivere queste sensazioni, non sono particolarmente affezionato alle case – rivela –. Mi ha spinto lei e questa casa ha tutte le caratteristiche mie. C’è un limoneto, un elemento quasi costitutivo, io sono fatto di quella materia li, io i limoni li ho sempre divorati. Non è una villa sontuosa, ma non potrebbe esserci un posto più bello al mondo. Certo, rimane questa mia anima nomade che prevale, ho sempre voglia dopo un po’ di andare. La casa è il luogo da cui si parte, la casa è simbolo delle mie radici, di dolore e di bellezza. Un intreccio di sensazioni apparentemente contrastati, ma è la vita che è così ». I rumori della 'battaglia' politica o dei conflitti qui si attenuano. «Certo quando stai qua tutte le altre cose sembrano meno importanti – conclude –. Non puoi dimenticare la guerra in corso, lo senti che nell’aria che c’è questo dolore, tuttavia le domande che ti poni sono più profonde, ti riguardano».

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