martedì 2 febbraio 2021
Gli effetti della crisi sanitaria uniti ai cambiamenti delle strutture economiche
L’aumento dei debiti pubblici, insieme alla de-globalizzazione e alla ritirata dell’industria nei paesi poveri rischia di far crescere le tensioni. Serve più cooperazione

L’aumento dei debiti pubblici, insieme alla de-globalizzazione e alla ritirata dell’industria nei paesi poveri rischia di far crescere le tensioni. Serve più cooperazione - Reuters

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La crisi economica globale che stiamo vivendo a causa della pandemia di Covid-19 ancora non ha declinato pienamente i suoi effetti: questi infatti saranno più evidenti e pervasivi nei prossimi anni. Analisti, osservatori e policy- maker rilevano e confermano enormi e consolidate preoccupazioni alla luce delle crescenti disuguaglianze e del peso del debito pubblico che va accumulandosi nei paesi, in particolare in quelli più poveri. Un’altra delle conseguenze plausibili, per quanto non perfettamente misurabile, è la ristrutturazione dei processi produttivi a livello mondiale.

Negli ultimi anni, la produzione di una grande quantità di beni è stata sempre più frammentata e dispersa a livello globale, ed infatti è divenuta popolare l’espressione 'catene globali del valore' per indicare esattamente la divisione delle fasi della produzione dei beni manufatti in diversi paesi. Questa tendenza sviluppatasi negli anni Novanta del secolo scorso, è stata resa possibile dalla pervasività della tecnologia, dall’espansione del capitale umano a livello mondiale e dalla riduzione dei costi di trasporto. Gli investimenti produttivi, che hanno strutturato tali reti di produzione globali, hanno contribuito all’espansione dei settori manifatturieri in molti paesi emergenti e in via di sviluppo. Tali strutture produttive, tuttavia, risentono delle crisi a livello mondiale poiché in presenza di choc profondi il commercio mondiale e gli investimenti produttivi si fermano. E infatti, la globalizzazione delle produzioni ha subito una prima e profonda battuta d’arresto già all’indomani della crisi del 2008. Abbiamo assistito, in particolare, a un nuovo impoverimento strutturale di alcune economie più fragili secondo un processo che l’economista Dani Rodrik aveva definito di de-industrializzazione prematura. In breve, in alcuni paesi stavamo già assistendo a una riduzione delle produzioni manifatturiere prima ancora che queste avessero raggiunto un livello di adeguata solidità in grado di garantire percorsi di sviluppo stabili per molti di questi.


La produzione di una grande quantità di beni dagli anni 90 è stata frammentata e dispersa a livello globale, generando 'catene globali del valore'. È stata la fortuna delle nazioni emergenti, ora in difficoltà

All’indomani della grande crisi del 2008 il commercio mondiale ha subito una contrazione significativa e successivamente le misure protezionistiche, in particolare quelle non-tariffarie, adottate da molti paesi sono aumentate. Ora la crisi derivante dalla pandemia di Covid-19 sta ripresentando il medesimo scenario. Le ultime stime per il 2020 appena trascorso si parla di una riduzione degli scambi di beni a livello mondiale dell’8,7% rispetto al 2019, con un indebolimento inevitabile delle 'catene globali del valore'. Da un lato, è evidente che una tendenza di questo tipo andrà ad ampliare il gap tra paesi ricchi e alcuni tra i paesi più poveri, rendendo ogni ipotesi di futura convergenza economica decisamente remota. D’altro canto, la contrazione della manifattura in molti paesi aumenterà in maniera significativa anche il rischio di nuovi conflitti armati.

La struttura delle economie, infatti, fa la differenza nel determinare gli incentivi alle guerre e in ogni caso alla diffusione della violenza a vari livelli. È stato dimostrato in una pletora di studi che le guerre civili nei paesi in via di sviluppo hanno un legame diretto con lo sfruttamento delle risorse naturali. Una minore incidenza di conflitti armati è invece associata a una maggiore espansione dei settori manifatturieri, in particolare se questi sono integrati nell’economa globale. In pratica, la presenza di settori manifatturieri che generano esportazioni in molti casi ha ridotto le cause economiche dei conflitti armati, della violenza politica, ma anche di una violenza diffusa nelle società. I motivi sono diversi: in primo luogo, le esportazioni di beni manufatti e in particolare di beni intermedi creano stabili aspettative in termini di reddito, dato che solitamente le reti di produzione – in assenza di choc significativi – tendono a mantenersi stabili nel tempo.

In secondo luogo, gli investimenti produttivi conducono a processi di specializzazione dei territori che sovente attirano nuovi investimenti oltre che una maggiore accumulazione di capitale umano. L’integrazione con l’economia globale, peraltro, ingenera anche un cambiamento negli assetti istituzionali. I paesi diversificati dal punto di vista produttivo e aperti al resto del mondo sono paesi più solidi dal punto di vista economico, in particolare se all’espansione produttiva è associata un’espansione della democrazia. Alla luce di questa interpretazione, la de-globalizzazione costituisce un’ulteriore minaccia per la pace in particolare nei paesi più fragili.


La contrazione della manifattura in molte aree aumenterà in maniera significativa il pericolo di nuovi conflitti armati

In questa prospettiva, pertanto, tra le urgenze non differibili del mondo post-Covid unitamente alla tutela dei diritti umani, della democrazia e della giustizia sociale, la diversificazione produttiva dei paesi in via di sviluppo andrebbe considerata non solo una politica desiderabile in termini di crescita economica, ma anche in termini di pace per le società. Per limitare le più gravi conseguenze della crisi economica si rende necessaria quindi una campagna globale di sostegno ai settori manifatturieri. In molti paesi, infatti, a causa della pandemia è più che probabile che non vi siano risorse a sufficienza per attivare e sostenere investimenti nei settori manifatturieri.

Questo è tanto più urgente alla luce del fatto che, come evidenziato dall’Unctad, già negli ultimi anni gli investimenti nelle economie in via di sviluppo si erano concentrati molto più nei settori estrattivi. L’eccessiva dipendenza da questi, viceversa, rischia di concretare ulteriori e maggiori rischi di conflitti armati. Diviene quindi urgente il richiamo a una nuova spinta all’industrializzazione, in particolare per quei paesi che rischiano di rimanere fuori dall’economia globale e ritrovarsi in una spirale di violenza. Invero, un piano globale per la pace passa attraverso un piano di industrializzazione e rivitalizzazione delle catene del valore a livello globale. Pletorico ricordare che la cooperazione tra i governi in seno alle organizzazioni internazionali è quanto mai essenziale perché una strategia di questo tipo possa tradursi in azioni concrete e durature.

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