Il fermo no alla mafia e Riina malato
mercoledì 7 giugno 2017

Può accadere, in una società, che ci si trovi di fronte alla necessità di scegliere tra due valori, entrambi irrinunciabili, ma in conflitto tra di loro. Nel caso sollevato dalla sentenza della Corte di Cassazione, che riguarda la possibile concessione degli arresti domiciliari a Totò Riina, questi valori sono addirittura tre: la giustizia, la sicurezza pubblica e il rispetto della dignità umana. E il fatto che i primi due stiano dalla stessa parte contro il terzo non rende la scelta meno ardua e, in ogni caso, dolorosa.


A complicare le cose c’è poi l’intervento di un quarto fattore, sicuramente meno legittimo dal punto di vista sia etico che giuridico, ma comprensibile - e, in questo momento, largamente prevalente in una larga fascia dell’opinione pubblica -, che è lo spirito di vendetta. Basta scorrere le lunghissime file di commenti on line per rendersi conto che la reazione dell’uomo della strada - in sintonia con quello dei parenti delle vittime - alla sentenza della Suprema Corte, là dove menziona «l’esistenza di un diritto di morire dignitosamente, che deve essere assicurato al detenuto», è sostanzialmente riassumibile nelle parole di uno di questi commenti: «Ma che diritto di morire dignitosamente! Questo mostro lo ha forse concesso alle sue innumerevoli vittime? Che abbia quello che fatto a loro!».


Occhio per occhio, dente per dente, insomma. Una logica elementare che si può capire, ripetiamo, ma non giustificare. Perché il principio di reciprocità produce quella cattiva simmetria della violenza che è propria della faida e che accomuna in uno stesso orrore la vittima e il carnefice, finendo per metterli sullo stesso piano. La maggiore vittoria della mafia sarebbe proprio di ridurci ad adottare la barbara legge del taglione da essa seguita nei suoi conflitti sanguinari. Non possiamo e non dobbiamo concedergliela, se non vogliamo restare imprigionati in un abbraccio mortale che ci farebbe tornare indietro di secoli.


Restano in gioco, invece, i valori confliggenti di cui si diceva. La giustizia, innanzi tutto. Oggi si insiste molto sulla funzione rieducativa, piuttosto che meramente punitiva, della pena, ed è un progresso di cui rallegrarci. Non bisogna dimenticare, però, che una antichissima tradizione vede in essa anche il riequilibrarsi di una disarmonia, introdotta dal crimine, e in cui lo stesso criminale trova un implicito riscatto. Raskolnikov, in Delitto e castigo di Dostoevskij, sente l’esigenza di riconciliarsi con la terra che ha violato, uccidendo, e si china a baciarla prima di andare a costituirsi. Mentre la vendetta è frutto dello scatenarsi dell’odio, la giustizia mira a restituire alla società la fiducia che il male non resterà impunito e perciò non sarà vittorioso. Riina ha commesso e ordinato crimini orrendi con spietata freddezza. È giusto che non paghi fino in fondo il suo debito?


C’è anche il problema della sicurezza. I giudici della Corte di Cassazione osservano nella sentenza che «ferma restando l’altissima pericolosità» di Riina e «del suo indiscusso spessore criminale», il Tribunale di sorveglianza non «chiarisce come tale pericolosità possa e debba considerarsi attuale», data la «sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute e, del più generale stato di decadimento fisico» del boss. Chi conosce l’ambiente e lo stile della mafia sa, però, che un capo di "cosa nostra" può, come ha detto qualcuno, dare ordini anche con gli occhi. Di Luciano Liggio si narra che quando in una riunione fissava qualcuno, scendeva nella stanza il gelo. Anche se ha ottantasei anni e due neoplasie, Riina è ancora un capo, "il capo dei capi", e il suo prestigio, agli occhi degli altri mafiosi, non è diminuito, ma accresciuto dagli anni trascorsi in regime di carcere duro, perché non ha parlato.
Eppure noi non possiamo essere insensibili al richiamo fatto, a torto o a ragione, dalla Suprema Corte al «diritto di morire dignitosamente». Esso spetta ad ogni essere umano, anche a Totò Riina.

Perché nella tradizione della nostra civiltà un uomo è un uomo e non si riduce mai a quello che ha fatto. E concedergli un estremo atto di misericordia forse non è rendere giustizia a lui, che non ha alcun diritto di pretenderlo, ma è renderlo a noi stessi e a quelli che verranno dopo di noi, testimoniando che il rispetto per l’uomo viene prima di ogni altra cosa. Il problema resta soprattutto quella della sicurezza. Non sappiamo quali soluzioni tecniche si possano adottare per garantirla. Bisogna assolutamente essere certi, attraverso controlli rigorosi, che una nuova condizione non si trasformi, per il vecchio boss, in un’occasione per avere contatti e comunicare eventuali ordini. Ma se queste soluzioni si trovassero, noi saremmo fieri di far parte di uno Stato che ha saputo vincere anche la tentazione di schiacciare i suoi avversari, perché ha saputo vedere in essi degli esseri umani.

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