Ma l'apartheid climatico no
mercoledì 3 luglio 2019

In un futuro non troppo lontano con ogni probabilità non sarà (solo) il colore della pelle a discriminare i popoli, quanto la capacità di reggere il peso dei cambiamenti climatici. In altre parole, il mondo vivrà (anzi: già cominciando a vivere) una nuova fase, caratterizzata dall’«apartheid climatico». Se "Avvenire" mercoledì scorso, in questo rovente giugno italiano dell’anno 2019, ha dato molto risalto all’allarme lanciato da Philip Alston, relatore speciale dell’Onu sui diritti umani e la povertà estrema, è perché lo scenario all’orizzonte rischia di caratterizzarsi come un inedito assoluto. La voce di Alston non è quella dell’apocalittico che gioca a impaurire l’opinione pubblica per lucrare consenso, né quella dell’attivista ideologico che procede per slogan. No: il signore in questione è un apprezzato giurista australiano, docente di diritto internazionale a New York, che da lunghi anni collabora con le Nazioni Unite.

Secondo lo studio Onu che ha presentato, l’emergenza climatica da qui al 2050 farà perdere casa e terra a 140 milioni di persone nei Paesi in via di sviluppo, ma già entro il 2030 saranno 120 milioni gli uomini e le donne che torneranno a scivolare in condizione di povertà estrema a causa del riscaldamento terrestre e ai fenomeni conseguenti. Un dossier realizzato da un think-tank australiano, presentato al recente Forum mondiale sull’economia circolare di Helsinki, motiva previsioni ancor più fosche che delineano addirittura nell’arco del prossimo trentennio, da oggi al 2050, un serio rischio di collasso per l’attuale civiltà umana.

Ma restiamo ai dati Onu, inquietanti quanto basta. Le dinamiche ivi descritte evidenziano un gioco perverso, nel quale i Paesi più poveri sono responsabili solo di una piccola frazione delle emissioni globali (il 10%) ma dovranno sopportare il 75% dei costi provocati dalla crisi climatica. Per contro i Paesi più ricchi, potendo contare su risorse finanziarie ben maggiori, saranno in grado di operare gli aggiustamenti necessari ad affrontare temperature sempre più estreme. Insomma: se il rischio che corriamo è di andare verso una sorta di naufragio collettivo, alcuni hanno pronta la scialuppa di salvataggio, mentre per altri mancherà persino il salvagente.

Quattro anni fa, nella Laudato si’ papa Francesco richiamava con forza l’attenzione della comunità internazionale proprio sul fatto che, in tema di cambiamenti del clima, «gli impatti più pesanti probabilmente ricadranno nei prossimi decenni sui Paesi in via di sviluppo». Il paradosso è che, da decenni, vengono stanziati fondi e creati progetti per arginare il sottosviluppo dei Paesi poveri, ma – ha detto con chiarezza Alston – se la comunità internazionale non si mobiliterà con urgenza rischia di vanificare ben mezzo secolo di lotta alla fame. Non intervenire, quindi, per rimediare agli squilibri sul clima sarebbe insomma un fatale autogol per tutti. Non solo: se le cose dovessero prendere la piega descritta nel citato rapporto Onu, assisteremmo a effetti di ordine geopolitico non meno devastanti: «La rabbia delle comunità colpite, la crescita delle disuguaglianze, l’aggravarsi della miseria per alcuni gruppi sociali molto probabilmente stimolerà il diffondersi di risposte nazionaliste, xenofobiche e razziste». Un vaso di Pandora, insomma, che a nessuno conviene scoperchiare.

Il tema dell’«apartheid climatico», va ricordato, è stato sollevato da tempo dal mondo missionario. Il fatto che ora l’Onu lo "certifichi" è davvero importante. La speranza è che, accorgendosi delle disparità clamorose e crescenti, chi più ha e può maggiormente si lasci coinvolgere. Va in questo senso la recentissima lettera-denuncia di 18 miliardari americani che chiedono (!) di essere più tassati, per favorire le fasce più povere della popolazione.

Ma anche i non ricchissimi possono e debbono fare la propria parte, magari rispondendo attivamente all’invito lanciato attraverso queste colonne da Leonardo Becchetti ed Enrico Giovannini, e accolto con interesse dallo stesso premier italiano Giuseppe Conte, a dar vita - accanto e insieme alle mobilitazioni giovanili di piazza dei Fridays for Future - a efficaci Saturdays for Future, sabati di acquisto responsabile che attraverso l’esercizio di un consapevole 'voto con il portafoglio' premiano coloro che producono in modo sostenibile per persone e ambiente.

L’auspicio è insomma che, anche nel campo dei cambiamenti climatici, si assista a un sussulto di coscienza da parte di chi sa di poter di contribuire alla causa comune mettendo in gioco le proprie risorse disponibili, infinitamente superiori a quelle di altri. Su questo punto, il movimento dei giovani ' green' di tutto il mondo fa bene a esercitare un salutare pressing, perché non c’è nulla come la voce degli under 30 («gli stakeholder muti», come sono stati efficacemente chiamati) che ha la forza e il sacrosanto diritto di esigere una nuova e più solida giustizia globale.

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