Come steli di innocenti
sabato 19 maggio 2018

La relazione Io-Tu consiste nel porsi di fronte a un essere esterno, cioè radicalmente altro, e nel riconoscerlo come tale. Questo riconoscimento dell’alterità non consiste nel farsi un’idea dell’alterità. Non si tratta di pensare l’altro, né di pensarlo come altro, ma di rivolgersi a lui, di dirgli Tu
Emanuel Lévinas, Martin Buber


Il dialogo è il filo che tesse le nostre relazioni sociali buone e feconde. Ascoltare e dire, silenzio e parola, frasi e gesti, sono la grammatica del reciproco attraversamento (dia) della parola (logos). Dialogare è lasciarsi attraversare dall’altro mentre gli chiediamo il permesso di farsi attraversare dalla nostra parola. Attraversare è un verbo di moto, che evoca tempo e spazio, luoghi, nomi, carne, è sempre creazione di novità. Molti possibili dialoghi necessari, iniziati con impegno e buona volontà, non riescono a nascere perché quando la parola tocca la carne e inizia a in-segnarla, la percezione del dolore blocca l’attraversamento reciproco. Ci fermiamo quasi sempre sulla soglia del dialogo vero, dove si trovano i suoi semi-lavorati – il confronto, il gentlemen agreement, il compromesso... All’origine della civiltà occidentale troviamo una tesi splendida e immensa, che è anche una dichiarazione d’amore che l’uomo fa a se stesso: siamo esseri capaci di logos, di parola, di discorso, di dialogo, e quindi di relazione.

Siamo una realtà dialogica. L’umanesimo biblico ci ha poi detto che l’Adam è capace anche di dialogo con Dio, che possiamo avere una relazione con l’assoluto, sappiamo discorrere con YHWH. L’uomo è un "amico di Dio" (Abramo), ci parla "bocca a bocca" (Mosè), perché non solo l’uomo ma anche il Dio biblico è capace di dialogo. Geremia, Isaia, Agar, Anna, Maria, ci sono mostrati come persone guidate da una voce, con la quale entrano in dialogo. Dialogare è sempre un reciproco apprendimento, è una con-creazione. Allora se è vero che l’umanità ha imparato e impara molto dialogando con Dio, deve essere altrettanto vero che Dio ha imparato e continua ad imparare qualcosa dialogando con gli uomini e con le donne. Ha imparato e impara che cosa sono veramente il mondo, il dolore e l’amore, mentre noi quel mondo lo miglioriamo col nostro lavoro, mentre ci innamoriamo, soffriamo, siamo fedeli e infedeli, moriamo e risorgiamo molte volte. Dio ha cambiato per sempre la storia umana resuscitando suo figlio, e noi sappiamo che cambia perché non può restare indifferente quando assiste in diretta alle nostre resurrezioni e a quelle dei nostri figli.

Anche Davide è un uomo che dialoga con Dio: «Dopo questi fatti, Davide consultò il Signore dicendo: "Devo salire in qualcuna delle città di Giuda?". Il Signore gli rispose: "Sali!". Chiese ancora Davide: "Dove salirò?". Rispose: "A Ebron". Davide dunque vi salì con le sue due mogli, Achinòam di Izreèl e Abigàil» (2 Samuele 2,1-2). Davide fa domande a Dio, che gli risponde. Non sappiamo come Davide dialogasse con YHWH. Ma saremmo sciocchi se permettessimo al genere letterario di mangiarsi la bellezza e la verità di quei lontani dialoghi. A Ebron Davide viene unto re: «Vennero gli uomini di Giuda e vi unsero Davide quale re sulla casa di Giuda» (2,4). Davide diventa un re locale, e gran parte di Israele è ancora in mano alla famiglia di Saul. Abner, il comandante dell’esercito di Saul, persona di grande carisma e potere, aveva fatto sì che Is-Baal, uno dei figli di Saul, diventasse re: «Is-Baal aveva quarant’anni quando fu fatto re d’Israele e regnò due anni. Solo la casa di Giuda seguiva Davide» (2,10).
Quindi Davide raggiunge gli abitanti di Iabes di Gàlaad, che avevano sepolto degnamente Saul: «Come fu annunciato a Davide che gli uomini di Iabes di Gàlaad avevano sepolto Saul, Davide inviò messaggeri agli uomini di Iabes di Gàlaad per dire loro: "Benedetti voi dal Signore, perché avete compiuto questo gesto d’amore verso Saul, vostro signore, dandogli sepoltura. Vi renda dunque il Signore amore e fedeltà. Anche io farò a voi del bene, perché avete compiuto quest’opera"»(2,5-6).

La riconoscenza è doppiamente transitiva: quegli abitanti erano stati riconoscenti verso Saul, ora Davide è riconoscente verso di essi, e prega Dio che sia riconoscente, donando a quei cittadini "amore e fedeltà". I nostri figli saranno domani riconoscenti verso gli altri e verso di noi se noi lo siamo oggi verso gli altri e verso i nostri genitori, perché la riconoscenza è la prima eredità che si trasmette da padre in figlio. Questa forma di transitività orizzontale (tra uomini e tra generazioni) è il versante luminoso di quella legge di retribuzione verticale che pur attraversa la Bibbia (le nostre sventure e le nostre ricchezze sono punizioni e premio di Dio), che Gesù ha cercato di superare definitivamente – senza riuscirci, se pensiamo che la meritocrazia non è altro che la secolarizzazione di quella antica teologia.
Questi primi capitoli del secondo libro di Samuele ci narrano una vera e propria guerra civile e fratricida tra l’esercito di Davide e la dinastia di Saul. Si susseguono efferati omicidi, tradimenti, vendette, che hanno il principale scopo di dirci che Davide, il nuovo re, non salì al trono né da usurpatore né come assassino dei suoi nemici. I suoi due principali rivali (Is-Baal e Abner) vengono uccisi dagli uomini di Davide a sua insaputa e contro la sua volontà (capitoli 3 e 4). Infatti, come era accaduto con la morte di Saul e Gionata, Davide piange, digiuna e celebra il lutto sia per la morte di Is-Baal sia per quella di Abner. Il testo ci descrive una escalation di violenza mimetica (René Girard), dove le ritorsioni e le vendette diventano la nuova legge. La guerra civile terminerà con la vittoria di Davide e una sua nuova unzione a re di tutto Israele, in Gerusalemme, la sua nuova città e capitale del regno.

All’interno della racconto di questa guerra civile, troviamo dei brevi ma splendidi quadri narrativi, che non ci possono lasciare indifferenti.
Il primo ha a che fare con Abner, il comandante dell’esercito, che si era "presa" una concubina di Saul. Is-Baal, il nuovo re, gli dice: «Perché sei entrato dalla concubina di mio padre?». E Abner gli dà una risposta che ci fa entrare immediatamente dentro una dimensione pessima del potere di ogni tempo: «Sono dunque una testa di cane di Giuda? Fino a oggi mi prodigo per la casa di Saul tuo padre, i suoi fratelli e i suoi amici, e non ti ho fatto cadere nelle mani di Davide – e tu mi fai una scenata per una questione di donne?» (3,8). Tremendo. Sono passati tremila anni, ma questa frase la ritroviamo ancora viva e attuale, in tutta la sua violenza infinita, nei luoghi del potere dei maschi, dove le relazioni con le donne sono troppe volte considerate "questioni" irrilevanti, sciocchezze, "cose" trascurabili se confrontate alle cose serie della politica, dell’economia e del potere. La Bibbia invece guarda quella donna, le dà un nome, e quindi la riconosce. Quella donna si chiama Rispa. A chiamarla per nome è la Bibbia, non Abner per il quale è solo una "cosa" da "prendere", non il re che la chiama "una concubina". Non è Sara a dirci nella Genesi il nome della serva e di suo figlio che ella cacciò via nel deserto: è l’autore biblico a dirci che si chiamavano "Agar" e "Ismaele". I potenti e i carnefici iniziano a umiliare le vittime negando loro la dignità del nome, perché chiamarle per nome significherebbe riconoscerle come persone. Rispa la ritroveremo nel capitolo 21, in uno degli episodi più drammatici e umani di tutta la letteratura antica.

Un secondo quadro è incastonato dentro l’offerta di alleanza/tradimento che Abner fa a Davide, promettendogli di consegnargli tutto Israele. Davide come pre-condizione dell’alleanza con lui, dice ad Abner: «"Ridammi mia moglie Mical, che feci mia sposa al prezzo di cento prepuzi di Filistei"» (3,14). Non sappiamo perché Davide chieda indietro la sua prima moglie Mical, figlia di Saul. Sappiamo solo che dopo la fuga di Davide, Mical era stata data dal padre a un altro marito: Paltièl. La richiesta di Davide viene esaudita, e il re «mandò a toglierla a suo marito, Paltièl» (3,15). Molto forte è la reazione del marito: «Suo marito partì con lei, camminando e piangendo dietro di lei fino a Bacurìm. Poi Abner gli disse: "Torna indietro!". E quegli tornò» (3,14-16). La Bibbia riesce a farci vedere questo marito che segue, a piedi e in lacrime, la carovana della moglie, con la stessa disperazione con cui si segue il carro con la bara di una moglie. E con questo ci vuole dire qualcosa sulla pietosa condizione di un uomo, di un maschio, di un marito, che, anche se solo per un momento, attenua la spietatezza delle azioni degli altri maschi di queste storie – Davide incluso.

Infine, un terzo dettaglio lo troviamo nel capitolo che descrive la morte del re Is-Baal: «Gionata, figlio di Saul, aveva un figlio storpio nei due piedi. Egli aveva cinque anni quando giunsero da Izreèl le notizie circa i fatti di Saul e di Gionata. La nutrice l’aveva preso ed era fuggita, ma nella fretta della fuga il bambino era caduto ed era rimasto storpio. Si chiamava Merib-Baal» (4,4). Un racconto che ci dice qualcosa di più su Gionata, l’amico di Davide, e quanto grande e collettivo fu il dolore per quella morte. Un bambino di cinque anni storpio, in cui rivediamo i tanti bambini storpiati dalle guerre che ancora, dopo tremila anni, continuano a storpiare soprattutto i bambini, a umiliare le donne, che anche quando riescono a fuggire con i figli in braccio non sempre riescono ad evitare che le cattiverie degli adulti storpino i loro bambini.

Lo scrittore non poteva risparmiarci la narrazione delle violenze di quella guerra civile. Poteva però omettere questi piccoli dettagli narrativi, poteva evitare di parlarci di Rispa e di Paltièl – come hanno fatto i Libri delle Cronache, che raccontano gli stessi episodi, ma senza Rispa, Paltièl, Merib-Baal. E invece quell’antico scrittore li ha voluti lasciare, ci ha donato i loro nomi, e così ha eretto nuove steli a ricordo delle vittime innocenti di tutte le violenze.
La Bibbia è un libro meraviglioso per molte ragioni, ma lo è soprattutto perché è uno scrigno che custodisce le lacrime dei poveri e degli scartati, spesso nascoste negli interstizi dei grandi racconti, quasi sempre assenti dalle letture nelle nostre liturgie. E forse è bene che restino nascoste, perché il dolore delle vittime e dei piccoli è troppo prezioso e deve restare segreto, per proteggerlo.

l.bruni@lumsa.it

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