Il cuculo non ha fratelli
sabato 11 gennaio 2020

Se volessimo definire l’umana civiltà nel giro di una espressione pregnante, potremmo dire che essa è la potenza formale di far passare nel "valore" ciò che in natura corre verso la "morte"

Ernesto de Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico

Il Novecento ci ha lasciato in eredità un ricco e duro dibattito sul capitalismo. È stato qualcosa di più e di diverso di un dibattito intellettuale o accademico. È stato sangue e carne, vita e morte, paradiso e inferno. I critici del capitalismo sono sempre stati molti, ma il capitalismo ha mostrato una sorprendente capacità di adattamento al mutare delle condizioni di contesto. Ha saputo cambiare forme assorbendo le istanze dei suoi critici, e come tutti i grandi imperi è stato fatto più grande e forte dai nemici inglobati nelle proprie truppe e nella propria cultura. È cambiato al punto che oggi la stessa parola “capitalismo” ha perso forza – la continuo a usare per mancanza di parole migliori. In questi ultimissimi anni, però, alcuni cambiamenti globali, drammatici e repentini hanno complicato gli scenari, ma hanno anche fortemente ridotto e semplificato i dibattiti sulla valutazione etica di questo capitalismo. Perché è fin troppo evidente che per quanto riguarda alcune variabili fondamentali della vita individuale e sociale, il capitalismo non ha mantenuto le sue promesse di progresso e benessere. Lo stato di salute dei beni comuni, dei beni relazionali e della Terra ci dicono ormai chiaramente e concordemente che esiste una incompatibilità radicale tra la loro salvaguardia e la logica capitalistica. Da queste prospettive, sempre più decisive, non sta aumentando né la ricchezza delle nazioni né la pubblica felicità. Su questo non c’è più nulla di serio da dibattere. Dobbiamo semplicemente cambiare logica, ci servono nuovi paradigmi, e soprattutto dobbiamo fare presto: il tempo è scaduto, o siamo in piena “zona Cesarini” del pianeta e delle comunità umane.

Il capitalismo ha conosciuto valutazioni molto diverse anche all’interno delle Chiese cristiane e del cattolicesimo. Un tema costante riguardava (e riguarda) la pretesa natura cristiana dello spirito del capitalismo. Che il capitalismo sia in qualche modo “cristiano” è tautologico, essendo qualcosa nato e cresciuto in Europa, e dire Europa significava dire, fino a pochi decenni fa, essenzialmente cristianesimo. Da questa prospettiva, “cristiani” erano la modernità e l’illuminismo, ma anche i fascismi e il comunismo. Ma dicendo questo non diciamo nulla. Non aiuta molto, quindi, parafrasando il celebre incipit di “Teologia politica” di Carl Schmitt (1922), affermare che tutti i concetti più pregnanti della economia moderna sono concetti teologici secolarizzati. Le cose più interessanti iniziano quando proviamo a porci domande “seconde”: che cosa del cristianesimo è entrato nel capitalismo? Che cosa è rimasto fuori? Come è entrato? La nuova serie di articoli che oggi iniziamo è un tentativo di risposta a queste (e altre) domande. Prima però dovremmo prendere coscienza che la storia del rapporto tra cristianesimo ed economia è veramente complessa, probabilmente più complessa di quella che chi ha scritto finora su questo tema ci ha raccontato. Innanzitutto perché le categorie teologiche (cristiane e bibliche) che la modernità ha trasformato, secolarizzandole, in categorie economiche, erano state a loro volta influenzate da categorie economiche. La teologia che ha ispirato l’economia era stata prima ispirata dall’economia. Lavorando in questi anni su economia, Bibbia e teologia, abbiamo scoperto intrecci improbabili e imprevisti tra questi ambiti della vita, e all’inizio con notevole stupore abbiamo affermato più volte che il primo homo oeconomicus è stato l’homo religiosus. Il do ut des, prima di essere la regola aurea del commercio, è stata la legge ferrea dei sacrifici offerti agli dèi: “Ecco il mio burro: dove sono i Tuoi doni?”, troviamo nel rituale braminico delle offerte al tempio. Molte categorie su cui nella modernità si è fondata poco alla volta la scienza economica – come prezzo, scambio, valore, debito, credito, merito, ordine, dono, tributi, premio, la stessa oikonomia – sono state ereditate dalla religione e dall’umanesimo medioevale ebraico–cristiano; ma se scaviamo più in profondità, ci accorgiamo che quelle stesse categorie teologico–religiose si erano a loro volta formate in uno scambio constante con la vita economica delle comunità. Alle radici delle società antiche troviamo monete nei sarcofagi per accompagnare i morti per pagare il prezzo d’ingresso nell’aldilà, o il linguaggio economico applicato alle colpe, ai debiti, alle penitenze. La stessa Bibbia ebraica e poi i Vangeli e Paolo fanno abbondante uso di immagini e linguaggio economici per parlare della fede. Siamo dentro una contaminazione reciproca, dove non è semplice capire chi abbia influenzato chi, né quale sia la direzione del nesso causale.

La tesi più probabile è che con la rivoluzione agricola i commerci e le religioni si siano sviluppati insieme, e che il matrimonio tra l’economia e il sacro sia avvenuto naturalmente all’alba delle grandi civiltà. La nascita e lo sviluppo delle monete sono avvenuti attorno ai templi, furono usate per misurare sacrifici, colpe e meriti, e da lì il loro uso si è via via allargato all’ambito economico profano. Il latino pecus (gregge) da cui deriva pecunia, indicava primariamente i capi di bestiame offerti nei sacrifici, contati e contabilizzati nei rapporti commerciali con la divinità. Era il sacro a offrire il necessario contesto di fiducia-fede perché le monete potessero avere il loro corso. Il primo luogo di valorizzazione di “cose” – animali e piante – destinate per natura alla morte, fu l’altare: presentarli in offerta rituale li esonerava dalla ordinaria sorte dei mortali. Venendo poi al rapporto tra cristianesimo e capitalismo, dovremmo tenere molto presente che l’etica economica che ha informato di sé la christianitas medioevale era molto più simile alla cultura economica del tardo Impero romano che ai principi economici dei Vangeli. Vedremo che l’operazione che oggi il capitalismo sta facendo con il cristianesimo (prendere il suo posto), il cristianesimo lo aveva fatto a partire dal IV-V secolo con la religione e l’etica dei romani – con la sola differenza che nella seconda sostituzione non ci sono stati secoli di persecuzioni e martirio: il Costantino del capitalismo è stato Nerone o Erode, perché accolto con entusiasmo fin dal suo primo apparire. Le domande allora si complicano: quale etica economica cristiana sarebbe allora entrata (supposto che sia entrata) nel capitalismo moderno? È entrato più Cicerone o più il Vangelo, più l’etica stoica delle virtù o quella delle beatitudini?

Nella nostra ricerca non partiremo né da Max Weber né da Amintore Fanfani o Giuseppe Toniolo, ma da un filosofo tedesco, Walter Benjamin, più volte incontrato e discusso in questi anni di esplorazioni. In un brevissimo e profetico testo, “Il capitalismo come religione” (1921), diversamente da Schmitt, Benjamin non parla per il capitalismo di “secolarizzazione” delle categorie teologiche, ma di una nuova religione: «In Occidente il capitalismo si è sviluppato parassitariamente sul cristianesimo… Il cristianesimo nell’età della Riforma non ha agevolato il sorgere del capitalismo, ma si è tramutato nel capitalismo». Qui troviamo due concetti-immagini in tensione. Perché da una parte Benjamin afferma che il capitalismo è un parassita del cristianesimo; dall’altra, dice che il cristianesimo è diventato, come in una metamorfosi, il capitalismo. Immagini entrambe forti, che, sebbene prese solo come prima approssimazione, ci costringeranno comunque ad esercizi che potranno rivelarsi fruttuosi. Fruttuosi e parziali, fruttuosi perché parziali. Si potrebbero infatti dire altre cose interessanti partendo dalla tesi di Weber o di altri autori più “classici”. Il parassita e la metamorfosi sono immagini estreme e quindi molto discutibili. Ma, come spesso (non sempre) accade, se bene usate le metafore estreme possono far vedere aspetti della realtà più generativi delle metafore moderate.

Per questo prendiamo molto sul serio la tesi di Benjamin, preferendo però la metafora del parassita a quella della metamorfosi. Dalla biologia sappiamo che la metamorfosi consiste nella trasformazione che lo stesso insetto (od organismo) subisce passando dalla fase larvale a quella adulta. Il bruco che diventa farfalla, perché il processo è iscritto nel ciclo di vita dell’insetto. Il parassitismo, invece, è un fenomeno profondamente diverso, che assume, a sua volta, molte forme. La parola nasce in Grecia per descrivere alcuni comportamenti sociali, quali il godere di benefici senza sostenere costi, come gli approfittatori che si infilavano nei banchetti pubblici. Il parassitismo è molto diverso dal mutualismo della simbiosi. La simbiosi è un “gioco a somma positiva”, mentre il parassitismo è un “gioco a somma zero”, una relazione disarmonica, perché il parassita si nutre a spese dell’ospite, senza reciprocità nei vantaggi. Il parassita, poi, non usa soltanto l’ospite per nutrirsi, ma lo utilizza come propria “nicchia ecologica” cui affida un compito regolativo dei suoi rapporti con l’esterno (il virus non ha l’apparato per la sua riproduzione). In certi casi (chiamati parassitoidi) l’asimmetria è radicale e il rapporto finisce con la morte dell’ospite. Perché ai parassiti manca l’intelligenza per capire che uccidere il corpo che li ospita va contro il loro stesso interesse; ma nel corso della loro evoluzione alcuni hanno allungato il loro ciclo di vita presso l’ospite – lo uccidono più lentamente: nessun scroccone intelligente vuole la morte degli organizzatori dei banchetti.

Il rapporto tra capitalismo e cristianesimo contiene elementi di tutte queste forme di parassitismo, incluso l’allungamento della vita del suo ospite al fine di continuare a nutrirsene; come contiene altri elementi non catturati dalla metafora del parassita – ci sono aspetti anche di mutualismo e perfino di figliolanza. La metafora del parassita non ci fa vedere tutto, ma ci consente di scoprire qualcosa di nuovo. Tra le molte possibili forme di parassitismo, il parassitismo del cuculo è molto utile come strumento per indagare il nesso cristianesimo–capitalismo. Il cuculo pratica il parassitismo di cova: depone il suo uovo nel nido di altri uccelli (la capinera o la cannaiola, ad esempio), e l’uccello ospite a sua insaputa lo cova a causa della somiglianza tra quell’uovo estraneo e le sue proprie uova. Alla schiusa, il piccolo del cuculo si sbarazza delle altre uova presenti nel nido rimanendone l’unico occupante. L’uccello madre nutre il piccolo cuculo come fosse un proprio nidiaceo. Uno dei tanti errori di cui si serve la legge della vita. Il capitalismo–cuculo ha deposto il suo uovo in molti nidi cristiani (cattolici, luterani, calvinisti, anabattisti...). Non li ha deposti in nidi di altre religioni perché sarebbero stati respinti immediatamente. Il cristianesimo ha allevato l’uovo capitalista perché gli somigliava molto, e questa grande somiglianza dei gusci ha ingannato le madri. Lo hanno covato e protetto per secoli, nel lungo tempo in cui le uova sembravano tutte uguali. Finché solo recentemente, nel tempo della schiusa, quell’uccello diverso e più grosso sta iniziando a buttare fuori dal nido gli altri uccellini fratellastri. Ma, come in natura, questa madre, ritrovatasi soltanto con questo unico figlio, lo nutre ignara della sostituzione e dell’imbroglio. Perché la vita è più grande, e trasforma in valore ciò che dovrebbe morire. Non è il figlio della capinera, ma è figlio dello stesso bosco.
l.bruni@lumsa.it

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