Non a immagine d'idolo
sabato 12 settembre 2020

La domanda come io sia pervenuto a una materia così arcaica non ha ancora trovato risposta. Vi influirono circostanze varie, connesse con gli anni, con l’età. Ripeness is all. Come uomo e come artista io dovevo in qualche modo trovarmi in uno stato di "ricettività"​

Thomas Mann, Appendice a Giuseppe e i suoi fratelli

Dovremmo ringraziare la Bibbia solo per aver custodito nei secoli il mistero intimo di Dio, protetto dalle nostre manipolazioni teologiche e ideologiche. L’esilio babilonese non è stato soltanto il luogo e il tempo dove sono nati alcuni dei libri biblici più grandi e dove hanno parlato e scritto profeti immensi come Ezechiele e il Secondo Isaia. Quell’esilio generò anche alcuni dei salmi più belli. Canti e preghiere sgorgate dall’anima di un popolo umiliato, offeso nella sua identità nazionale, colpito al cuore della sua religione. L’esilio fu molte cose, ma fu soprattutto una grande prova religiosa. Ritrovarsi in una terra dalla religione ricchissima, circondati da molti dèi ognuno con il suo santuario, rappresentati da statue luccicanti e portati in processioni spettacolari, costrinse Israele a ripensare profondamente la propria fede. Anche la dura polemica biblica anti-idolatrica si sviluppò durante l’esilio. L’assenza del tempio e di immagini di YHWH rendeva forte e drammatica la domanda che i babilonesi rivolgevano ironicamente agli ebrei: "Dov’è il vostro Dio?".


In quelle culture antiche, un Dio senza luogo era un dio inesistente. Come risposta a quella domanda tremenda giunse a maturazione la grande idea biblica del divieto di rappresentazioni di Dio (Es 20,4). Un divieto unico, e fondato su un evento decisivo: «Poiché non vedeste alcuna figura nel giorno in cui il Signore vi parlò sull’Oreb» (Dt 4,15). L’esperienza dell’incontro con YHWH era stato l’incontro con una voce, con qualcosa reale ma invisibile. Né Abramo né Mosè né i profeti hanno visto l’immagine di Dio – Mosè lo vide passare di spalle, come dire che non lo vide. Hanno invece udito la sua voce, il suo sussurro (Elia). Allora ogni pretesa immagine di Dio non può che essere un falso, perché la voce non si può rappresentare.

«Perché le genti dovrebbero dire: "Dov’è il loro Dio?". Il nostro Dio è nei cieli... I loro idoli hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Le loro mani non palpano, i loro piedi non camminano; dalla loro gola non escono suoni» (Salmo 115,2-7). La lotta idolatrica della Bibbia ha due componenti: una critica esterna alle immagini degli dèi degli altri popoli e una critica interna a Israele che è stato sempre tentato di farsi immagini del suo Dio. La critica del Salmo 115 sembra, a prima vista, tutta centrata sulla prima componente dell’idolatria, ridicolizzare gli altri popoli che adorano stupidi pezzi di legno. Questa, però, non è la dimensione più interessante e profonda della polemica biblica, perché se fosse stata formulata in presenza dei sacerdoti e profeti babilonesi questi avrebbero potuto rispondere che quelle immagini erano solo simboli e segni dei loro dèi che, al pari del Dio di Israele, "abitavano nel cielo". Avrebbero potuto rispondere con argomentazioni simili a quelle con cui i cattolici difendevano le statue dei santi dalla furia iconoclastica di alcuni movimenti della Riforma protestante. La critica biblica alle immagini torna anche oggi quando ci dimentichiamo che statue e icone sono segni di un Dio che non vediamo e che riconosciamo da una voce che pronuncia un nome: "Maria".

La seconda critica, quella rivolta agli ebrei, è invece molto più importante. Israele è stato accompagnato in tutta la sua storia biblica dalla tentazione di avere una religione semplice come quella degli altri popoli, con le stesse statue e le stesse processioni, con gli stessi riti naturali della fertilità. Il vitello d’oro sotto il Sinai è condannato e poi distrutto da Mosè perché immagine del loro Dio – il nome che il popolo diede al vitello aureo fu: YHWH. Rappresentare un Dio invisibile può produrre soltanto immagini sbagliate. La linea anti-idolatrica più importante è allora quella che Israele sviluppò non per criticare gli altri popoli ma come meccanismo di auto-protezione della propria fede, che non era solo minacciata (soprattutto prima dell’esilio) dai tentativi di importare dèi stranieri (i culti di Baal o della dea "moglie" di YHWH) e di collocarli nel loro tempio, ma dalla tentazione di semplificare la loro fede. L’idolatria più rilevante è infatti un riduzionismo religioso che diventa riduzionismo antropologico.

Lo sfondo di tutta la riflessione anti-idolatrica della Bibbia è la Genesi, e in particolare quei versi stupendi sull’Adam creato a "immagine di Dio" (1,27). Se noi umani siamo immagine di Dio, allora se riduciamo Dio a una sua immagine inevitabilmente sbagliata, stiamo riducendo ancor di più noi, che siamo l’immagine di quell’immagine ridotta. Tenere YHWH lassù, nell’alto dei cieli, invisibile ma parlante, significa tenere altissima la dignità delle donne e degli uomini; e dire che l’immagine di Dio che portiamo impressa appartiene al regno dello spirito e dell’essere non a quello dell’apparire. Chi vede un uomo, una donna, un bambino non vede la statua di Dio, ma una scintilla vera del suo mistero invisibile. Qui davvero l’essenziale dell’immagine è invisibile agli occhi. Non è la vista il senso necessario per vedere questa immagine. Importante è l’inizio del Salmo: «Non sarà a noi, non sarà a noi Signore che darai gloria! La Grazia tua e la tua Verità la innalzeranno solo al tuo Nome» (115,1). Torna un tema molto caro alla Bibbia: il Nome. Con l’avvicinarsi all’era cristiana, gli ebrei pronunziarono sempre meno il nome di YHWH (Es 20,7). Scrivevano il tetragramma (YHWH) ma pronunciavano "Adonai", Signore. Il Nome YHWH veniva pronunciato dal sacerdote solo nel tempio, forse solo nella festa di Kippur. Con la seconda distruzione del tempio nel 70 d.C. si smarrì anche il ricordo della pronuncia del Nome rivelato a Mosè. Ma cosa c’è dietro al Nome?

Quegli esiliati avevano una grande nostalgia dell’esperienza di Dio fatta in patria, quando YHWH "abitava" nel suo tempio ormai distrutto. Fecero molta fatica per ritrovare l’esperienza del sacro senza il loro luogo sacro. Ma questa immane fatica generò più cose straordinarie. Innanzitutto, l’assenza del tempio sacro inventò il tempo sacro: nacque lo Shabbat. Il tempo divenne più importante dello spazio. Lo Shabbat divenne il tempio del tempo, e resta ancora una delle più grandi profezie della Bibbia – senza una nuova cultura dello Shabbat non usciremo mai dalle crisi ambientali e sociali del capitalismo, che è l’anti-Shabbat. Lì scoprirono anche una nuova dimensione del Nome, che impararono grazie ai profeti sentinelle dell’esilio (si sente molto Ezechiele dentro il Salmo 115: «Dice il Signore: Ma io agii diversamente per onore del mio Nome»: Ez 20,9).

Con quel primo verso il salmista dice a Dio: non ti chiedo che tu mostri qui la tua gloria per noi. No, noi non abbiamo meriti per questo (il popolo visse l’esilio come punizione per le sue infedeltà). Mostra invece la tua gloria per fedeltà a te stesso, per fedeltà al tuo Nome. Non farlo per noi: fallo per te. È questa una delle più belle espressioni della gratuità nella fede. Il salmista sapeva che non possiamo eliminare il nostro vantaggio dalle nostre preghiere, possiamo però pregare Dio di non tenerne conto. Forse è questo il massimo della gratuità possibile sotto il sole: Dio, io non riesco a dimenticare i miei interessi, tu lo sai, ma non tenerne conto mentre ti prego. Qui la fede si distingue dal commercio, la preghiera dalla magia. Si prega Dio per Dio. Uno dei frutti religiosi e umani più grandi dell’esilio: la gratuità della preghiera, la capacità dell’uomo di auto-trascendersi, di essere più grande dei propri bisogni.

Un ultimo passaggio sull’idolatria. Il divieto biblico di rappresentare la divinità con statue o disegni, generò come sua bellezza collaterale una grande produzione di immagini letterarie e narrative su Dio. La Bibbia ha vietato immagini plastiche di Dio, ma ha prodotto una quantità sterminata di immagini intellettuali. Midrash rabbinici, leggende ebraiche, e poi la immensa, in qualità e quantità, letteratura ispirata da episodi biblici. Quel limite all’immagine ha impoverito il mondo ebraico di arti visive ma, come la siepe leopardiana, ha generato una letteratura infinita. Dio non è stato dipinto ma è stato molto pensato e meravigliosamente narrato. La filosofia greca ha pensato soprattutto l’uomo, la sapienza biblica ha pensato soprattutto Dio. Ma la Bibbia, forse, non è stata abbastanza consapevole del grande pericolo delle rappresentazioni intellettuali di Dio (L.A. Schoekel). La Bibbia vietò l’immagine (e la pronuncia del nome) di Dio per salvare Dio nel suo mistero e nella sua intimità, per proteggerlo dalle nostre molte manipolazioni. Ma le immagini più potenti non sono quelle visive, sono quelle mentali. L’idolatria non si manifesta solo con pupazzi e statue, i pupazzi più perniciosi sono i pupazzi intellettuali. Quella parola, cuore e anima profonda della Bibbia, è molto più capace delle mani di produrre feticci, di fabbricare vitelli d’oro.

Il nome delle idolatrie intellettuali è ideologia. E tra le ideologie molto dannose sono quelle religiose, perché dimenticano spesso il divieto di "farsi immagine" di Dio. La tentazione della teologia è violare il comandamento del divieto di farsi immagini di Dio. Mentre il bravo scienziato o il bravo economista sanno che il modello che usano per descrivere il mondo non è il mondo (per esempio: la concorrenza perfetta non è il mercato), il teologo (tranne i grandissimi, e tra questi san Tommaso) è tentato di credere che i modelli che ha costruito per descrivere Dio siano l’immagine di Dio. E così, una volta costruito un modello pensato come immagine, catturano Dio dentro quella immagine. Abbiamo ucciso migliaia di persone, bruciato eretici perché troppo sicuri che l’idea che ci eravamo fatti di Dio fosse la sua immagine. Solo recuperando il senso biblico del divieto di immagine per custodire il mistero Dio potremo imparare l’arte del dialogo con chi ha altre idee di Dio.

Molto bello e suggestivo è l’ultimo verso di critica agli idoli: «Diventi come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida!» (115,8). Nel tempo abbiamo imparato che il congiuntivo ("diventi") può essere sostituito dall’indicativo: diventa. Noi diventiamo gli oggetti e le immagini che adoriamo. Non ce ne stiamo accorgendo, ma stiamo diventando sempre più simili alle nostre merci, cittadini sempre più simili al consumatore-idolo. Il Salmo termina con una splendida serie di benedizioni. Sono per noi, non ce ne perdiamo neanche una: «Vi renda numerosi il Signore, voi e i vostri figli. Siate benedetti dal Signore, che ha fatto cielo e terra. I cieli sono i cieli del Signore, ma la terra l’ha data ai figli dell’uomo» (115,14-16).
l.bruni@lumsa.it

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