Quando la fragilità divenne una virtù economica e civile
sabato 6 febbraio 2021

La letteratura è rivelatrice dello spirito di un tempo. Se poi la letteratura è grande, lo spirito che essa rivela trascende il suo tempo e il suo spazio. Quando però la letteratura è immensa, il suo spirito è per sempre e per tutti. Si possono – e si devono – leggere documenti, materiali d’archivio, cronache sull’etica mercantile tra Medioevo e Rinascimento, e si comprende qualcosa. Poi, un giorno, si rileggono la Commedia e il Decameron, e si capisce altro, qualcos’altro che getta luce diversa anche sui documenti e sulle cronache.
Dante è stato immenso per molte cose, non per la comprensione della sua nuova economia: «Egli è completamente sordo al senso dell’economico» (Ernesto Sestan, "Dante e Firenze", 1967, p. 290). Pur vicinissimo al movimento francescano, non seguì la linea di Pietro di Giovanni Olivi e degli altri frati teologi-economisti che osservando i mercanti nelle città furono tra i primi a capire che non tutta la mercatura era incivile, che non tutti i prestiti a interesse erano usurai. Dante resta invece legato ad Aristotele (e forse a Tommaso), e così non entra nel Trecento e nella nuova dimensione economica dell’Umanesimo, dove l’arte della mercatura fu anche incivilimento e virtù cristiana.

I mercanti Dante li ha guardati invece con occhio aristocratico, con il rimpianto di una Fiorenza nobile che ormai non c’era più. I contadini inurbati, divenuti ricchi grazie ai commerci e alle banche, sono per Dante la prima causa della decadenza morale della sua città, l’abbandono della "cortesia e valor": «La gente nuova e i sùbiti guadagni orgoglio e dismisura han generata, Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni» (If XVI, 73-75). La sua Commedia è attraversata dalla lode per il lavoro agricolo, per i valori della campagna, per l’ordine sociale basato sulle virtù cavalleresche. Firenze era ormai stata occupata dalle arti, e la politica dominata dai mercatanti. La sua città «produce e spande il maledetto fiore» (Pd IX,131), il fiorino, che stava corrompendo costumi e virtù. E con l’espressione "donne di conio" (If XVIII 66), Dante indica la prostituzione o forse la falsità: «Quando uno inganna altro, quello si dice coniare» (Ottimo, 1334 ca).
Non troviamo neanche un mercante nel suo Paradiso, e quando Cacciaguida, suo trisavolo, loderà Cangrande della Scala, discendente da una famiglia di mercanti, lo farà proprio per «la sua virtute in non curar d’argento né d’affanni» (Pd XVII,84). E invece ormai i suoi fiorentini erano dediti solo alla banca e al commercio, e quindi non più a onore e virtù: «tal fatto è fiorentino e cambia e merca» (Pd XVI, 61).

Dante, lo sappiamo, mette gli usurai nell’Inferno, tra i violenti "contro Dio, natura e arte" – gli usurai sommano questa triplice violenza: l’usura è negazione della legge di Dio, è contro natura ed è negazione dell’antica arte mercatoria. Li trova seduti per terra, come in vita, ma non più nel pavimento delle piazze di Firenze sopra il loro tappeto rosso che li contraddistingueva, ma sulla sabbia infuocata. E le loro mani, usate in vita senza sosta per maneggiare denaro, ora le usano per difendersi dai lapilli di fuoco, come animali che con le zampe scacciano gli insetti (If XVII,49-51). Lì Dante trova, insieme ad altri usurai fiorentini, anche Rinaldo degli Scrovegni, famoso usuraio padovano committente di Giotto. Per Dante, diversamente da sant’Agostino, le donazioni in punto di morte degli usurai non bastano per salvarli: restano nell’Inferno, quei loro doni non lucrano neanche il purgatorio. La ricchezza malamente guadagnata non riscatta la vita neanche donandola, alla fine, in beneficenza.

Nel "Convivio" la visione che Dante ha della mercatura e della ricchezza in rapporto alla virtù è ribadita e più argomentata: «Non vertù ma mercatantia» (Cv I, 8). I mercanti vengono chiamati miseri: «Quanta paura è quella di colui che appo sé sente ricchezza, in camminando, in soggiornando, non pur vegliando ma dormendo, non pur di perdere l’avere ma la persona per l’avere! Ben lo sanno li miseri mercatanti che per lo mondo vanno». La sola virtù della pecunia sta nel privarsene, ma in vita: «Vertude ... che non può essere possedendo quelle [ricchezze], ma quelle lasciando di possedere... Allora è buona la pecunia, quando, trasmutata ne li altri per uso di larghezza, più non si possiede» (Cv IV, XIII). Qui c’è tutto Boezio, ma anche Seneca e molti Padri della Chiesa.
Ma anche in tema di economia Dante ci sorprende con un colpo di scena – gli autori grandissimi sono più grandi anche delle proprie ideologie. La moneta, disprezzata e icona del demonio, la troviamo in Paradiso addirittura come metafora della fede. Nel dialogo tra Dante e san Pietro leggiamo: «"Assai bene è trascorsa d’esta moneta già la lega e ’l peso; ma dimmi se tu l’hai ne la tua borsa". Ond’io: "Sì ho, sì lucida e sì tonda, che nel suo conio nulla mi s’inforsa"» (Pd XXIV,83-87). Torna qui la tradizione medioevale del Christus monetarius, del Cristo esperto cambiavalute capace di riconoscere la vera fede (moneta) da quella falsa. Da qualche anno sappiamo ("Codice diplomatico dantesco", 2016), che il padre di Dante svolgeva a Firenze il lavoro di cambiavalute e di prestatore, forse di usuraio. Da qui, forse, lo sguardo negativo di Dante sulla moneta.

Con Boccaccio il paesaggio cambia drasticamente. Diversamente da Dante, Boccaccio viene da una famiglia di mercanti. Lui stesso aveva praticato da ragazzo a Napoli la mercatura, e conosceva da vicino il mondo mercantile, i suoi miti, la sua cultura, i suoi vizi e le sue virtù (Vittore Branca, "L’epopea dei mercatanti", 1956).
Dante guarda da fuori e con distacco un mondo nuovo che ancora non capisce e teme, e di cui vede gli squilibri; Boccaccio, pochi decenni dopo, nel "Decameron" guarda un mondo già cambiato, che mostra ancora di più tutta la sua magnificenza. Lo guarda dal di dentro, e ne vede vizi insieme alle virtù. Il mondo dei mercanti diventa la rappresentazione migliore della commedia del suo tempo, non più una divina commedia, ma tutta umana e mercatesca.
"Virtù batte fortuna", che nel Medioevo era il motto dei re e dei cavalieri, con Boccaccio si sposta decisamente alla comunità dei mercanti, che sono i protagonisti di quasi tutte le sue novelle. Le sue virtù sono anche e soprattutto quelle dei mercanti. Già nella prima giornata, Boccaccio mentre guarda i vizi dei mercanti, non manca di lodare l’usuraio ebreo Melchisedech (I,3), per come era riuscito con la sua intelligenza a uscire dalla trappola nella quale l’aveva messo il Saladino (quale delle tre grandi religioni è quella vera?). Nella seconda novella del primo giorno, il mercante Giannotto di Civignì viene definito «lealissimo e diritto e di gran traffico d’opera di drapperia», che aveva «singulare amistà con un uomo giudeo, chiamato Abraam, il quale similmente mercatante era diritto e leale uomo assai» (I,2,4). Giannotto inviò Abraam a Roma sperando che si convertisse conoscendo da vicino la vita dei cristiani. Ma Abraam, dopo che ebbe visto i peggior vizi della Chiesa romana, tornato dall’amico gli dice: «Io veggio continuamente la vostra religione aumentarsi e più lucida e più chiara divenire, meritatamente mi par discerner lo Spirito Santo esser d’essa fondamento e sostegno. Per la qual cosa ti dico che io per niuna cosa lascerei di cristiano farmi» (I,2,27). La sua conversione non avviene nonostante i peccati che vede nei cristiani, ma grazie a essi.

Anche nella Novella di Messer Torello (X,9), il Saladino, travestitosi da mercante di Cipro e giunto a Pavia per raccogliere informazioni sulla preparazione della prossima crociata, ci dona un bellissimo quadro anche della generosità e delle virtù mercantili. La mercatura è mostrata come mestiere alternativo al mestiere delle armi, rivelandoci così una grande vocazione dell’economia di tutti i tempi: dai porti dove sono salpate e salpano armi di guerra, sono salpate e salpano merci di pace.
E potremmo continuare... Boccaccio abita l’ambivalenza del suo tempo mercantesco. Sa scoprirne i suoi vizi, come quelli di Musciatto Franzesi, «ricchissimo e gran mercatante in Francia», che non ha nessun scrupolo di servirsi del notaio Ciappelletto, che «tante questioni malvagiamente vince a quante a giurare di dire il vero sopra la sua fede era chiamato... Egli era il piggiore uomo forse che mai nascesse» (I,1,7-15).

Ma mentre descrive i vizi di questi nuovi eroi, Boccaccio sa vederne anche le tipiche virtù. Anche questa è grandezza. Con lui cade l’idea classica che risaliva almeno ad Aristotele ed era centrale ancora in Dante: la fortuna colpisce solo i beni esteriori, e quindi la virtù deve orientarsi solo ai beni interiori dell’anima, i soli che non sono vanitas. Per Boccaccio, invece, l’impegno per i beni esteriori può essere virtuoso proprio a causa della loro vulnerabilità e fragilità. Perché impegnarsi e industriarsi per qualcosa di incerto e di non sicuro è più lodevole che impegnarsi per cose infrangibili e sicure. Allora spendere la vita nella mercatura, un bene per sua natura fragile perché soggetto alla sventura e non retto quasi mai dalla legge del merito, rende la mercatura degna di lode. Dipendere dalla fortuna, esserne coscienti, accettare questa dipendenza e qualche volta per causa sua fallire, è una virtù dei mercanti. Siamo di fronte a un ribaltamento dell’etica classica aristotelica, di Cicerone e del primo secolo cristiano, che ha ancora molto da dirci oggi.

Nel secolo di Boccaccio la coscienza morale dell’Occidente cristiano trasformò l’esposizione alla fortuna da vizio a virtù. E ci ha detto qualcosa di importante: c’è un valore etico nell’impegnarsi per beni fragili. Quasi tutti i beni lo sono, ma soprattutto lo sono quei beni che non controlliamo, perché dipendono dalla lealtà e onestà dei nostri collaboratori, dalla correttezza dei nostri clienti e fornitori, dalla non corruzione della politica e dai nostri concittadini, dalle infinite variabili dei mercati su cui non abbiamo controllo. Questa fragilità, la condizione ordinaria dei mercanti, fu vista come una qualità morale.
L’imprenditore ha una sua bellezza morale proprio perché non dipende soltanto dalla sua bravura, perché la sua ricchezza è sempre e tragicamente effimera. La virtù continua a combattere la fortuna, ma la prima virtù del mercante sta nella consapevolezza di dipendere radicalmente da quella fortuna che deve combattere e che non riesce sempre a vincere.
Un giorno in Europa capimmo che spendere la vita per cose che non controlliamo e da cui dipendiamo per vivere è qualcosa di moralmente prezioso, e che muoversi tutti i giorni sull’orlo del precipizio non è solo un’abilità tecnica, è anche un’eccellenza etica. E che la inevitabile vulnerabilità della vita, se accettata può diventare virtù civile.

l.bruni@lumsa.it
(14 - continua)


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