Seguire la nuda voce, docili alla mano sugli occhi
sabato 22 settembre 2018

Il Maestro disse: «A quindici anni, mi applicai allo studio. A trenta, mi feci un’opinione. A quaranta non ebbi più dubbi. A cinquanta, conobbi il volere del cielo. A sessanta, il mio orecchio si mise in sintonia. A settanta, seguo tutti i desideri del mio cuore senza infrangere nessuna regola»

I detti di Confucio, 2.4


Le comunità ideali e spirituali possono sperare di diventare autentici luoghi di fioritura umana se riescono a camminare sull’orlo del proprio disfacimento. Quando invece la paura della possibilità della propria fine diventa troppo forte e prevale, la vita dei membri appassisce per carestia di aria e di cielo. Soltanto i crinali delle alte quote consentono la vista di panorami abbastanza larghi da (quasi) appagare il desiderio di infinito che spinge le persone con "vocazione" a donare la propria vita a comunità cui affidano pezzi essenziali di libertà e di interiorità. Ma appena la carovana perde quota in cerca di bivacchi sicuri dove fissare le tende, i luoghi e gli orizzonti diventano immediatamente troppo angusti: dobbiamo solo smontare presto il campo e riprendere la scalata. Sui crinali si rischia di scivolare e precipitare, ma solo lì si sfiora il cielo. Molte comunità si sono estinte perché, semplicemente, hanno cercato di far vivere veramente le loro persone (e, qualche volta, un germoglio è rispuntato dal tronco abbattuto); altre non sono morte perché non hanno mai iniziato a vivere osando la vita piena. Il cristianesimo è nato dal disfacimento della sua prima comunità. Gesù ha salvato i suoi perché non li ha "salvati" in un luoghi sicuri e prudenti. Scivolò negli inferi, e da lì, nello stupore di tutti, iniziò la resurrezione.

Nelle comunità ideali accade qualcosa di simile a ciò che viviamo con i figli e le figlie. Al mattino li guardiamo, di nascosto, sistemarsi la cravatta e la camicetta di fronte allo specchio. Siamo orgogliosi della loro bellezza e bontà, e felici li lasciamo partire, senza mai smettere di stupirci quando ogni sera li vediamo ritornare. Perché sappiamo che un giorno non torneranno, ma se li abbiamo lasciati partire davvero, possiamo sperare che in un altro giorno ritorneranno davvero. Le famiglie e le comunità muoiono quando la paura del possibile non ritorno di chi ci sta vicino ci toglie la gioia di vederli partire al mattino, ci riduce l’orgoglio della loro bellezza fino a pervertirlo in gelosia. Per cercare di restare nelle traiettorie alte e luminose, un’operazione decisiva è la custodia della differenza tra la comunità ideale e l’ideale della comunità. Occorrerebbe cioè far di tutto affinché la persona che arriva perché chiamata non identifichi gli ideali che l’attraggono e seducono con la comunità stessa e con le sue prassi. È invece troppo comune che comunità e Organizzazioni a Movente Ideale (Omi) si presentino come l’incarnazione perfetta degli ideali che le ispirano e le animano. Perché è troppo forte la tentazione della comunità di indicare ai propri membri se stessa come l’ideale da vivere e seguire. Anche perché l’identificazione ideale-comunità piace molto sia alle persone che alla comunità, soprattutto nelle prime fasi - ma è proprio all’inizio che bisognerebbe agire in direzione ostinata e contraria a quella "naturale".

Accade così che invece di segnare e mantenere l’eccedenza dell’ideale della comunità rispetto alle sue pratiche, le Omi operazionalizzano il loro "carisma" in un insieme di azioni, riti, liturgie, regole individuali e collettive. Ci si convince tutti, e tutti in buonissima fede, che le regole, i regolamenti e le pratiche siano la copia conforme perfetta dell’ideale; che il modo, l’unico sicuro modo, per rendere concreto oggi l’incontro con la voce che ieri ci ha chiamato, sia seguire quelle regole e quelle prassi, sine glossa. I fondatori e le comunità fanno questa traduzione perfetta perché credono che senza l’ operazionalizzazione degli ideali la loro comunità non avrà futuro. Eliminano poco alla volta l’eccedenza dell’ideale sulla comunità, e così senza volerlo né saperlo impediscono davvero al carisma di continuare a operare cose nuove in futuro, perché la novità fiorisce solo dalle ferite/feritoie delle eccedenze-scarti tra gli ideali e la loro traduzione storica - gli effetti non intenzionali sono sempre quelli decisivi nelle esperienze collettive. Quando questa eccedenza salta, lo spirito libero e infinito diventa una tecnica. Il "che cosa è?" – cioè l’esclamazione del cuore che arriva tutte le volte che ci imbattiamo nel deserto nella manna (man hu: che cos’è?) di un evento spirituale di salvezza – diventa: "come funziona?", "come lo concretizzo?", "come lo metto in pratica?". Il primo incontro che aveva generato il desiderio di conoscere chi e che cosa fosse quella voce meravigliosa, si trasforma progressivamente in un repertorio di buone pratiche e di regole da seguire per essere "fedeli". Anche perché senza una qualche traduzione del carisma in prassi le comunità non nascono, ma questa stessa traduzione rischia di zittire il carisma che le ha generate. Una tensione paradossale, vitale, sempre decisiva.

Tutto ciò l’Umanesimo biblico lo conosce molto bene. La Bibbia ha fatto quasi l’impossibile per distinguere YHWH dalla Legge e dalla parola dei profeti che parlavano in suo nome (senza riuscirci sempre). Ma se la Bibbia avesse smarrito questa eccedenza di Dio sulle sue parole, avrebbe usato la parola come un laccio per intrappolare Dio, riducendolo a idolo (ogni idolatria, anche quelle "laiche", è un doppio laccio: uomini che legano la divinità e la divinità che una volta trasformata in idolo lega i suoi adoratori-allacciatori). Le parole della Scrittura possono generare altre parole vere perché sono sacramento di una realtà di cui non conoscono il mistero. L’umanesimo biblico è riuscito a salvare questa eccedenza grazie ai profeti. I fondatori delle comunità carismatiche, come i profeti, sono chiamati a essere i primi custodi dell’eccedenza del carisma sulle parole del carisma. Ma quando gli ideali vengono a coincidere con l’insieme delle pratiche comunitarie, nelle singole persone si riduce progressivamente lo spazio libero interiore. E il primo desiderio di conoscere che cosa e chi fosse il mistero che avevamo incontrato, diventa poco alla volta un semplice mestiere.

Tutto ciò ha conseguenze esistenziali molto concrete e qualche volta drammatiche. Molti membri di Omi entrano in crisi profondissime quando si accorgono che pur essendo circondati da pratiche e parole che dicono solo e sempre spiritualità e idealità, in realtà non sanno più che cosa sia veramente la vita interiore e la spiritualità. E non è raro che persone partite da giovani con una grande sete di spiritualità si scoprano da adulte impoverite proprio in ciò che avrebbe dovuto rappresentare il loro tratto distintivo e l’ideale della loro vita. Non riescono più a dire parole vere e sagge a nessuno, neanche a loro stessi. Quando qualcuno li incontra si trova davanti a un mestiere, a risposte tecniche senza la competenza specifica nello spirito che solo la pratica della libertà può generare in un cuore abitato. Si ritrovano tra le mani un ideale diventato etica e pratiche, che non parla più né di spiritualità, né di vita, né di Dio. La cancellazione delle eccedenze tra il Dio della comunità e la comunità perché presentata come incarnazione perfetta di quel Dio, ha annullato lo spazio interiore e segretissimo dove la vita interiore è coltivata e alimentata. E dopo aver parlato di spiritualità per molti anni, si ritrovano improvvisamente in una condizione neo-atea. Avvertono di aver usato solo tecniche, di essere rimaste sulla superficie della vita interiore vera per mancanza di libertà e fiato. Perché una volta spente le parole della comunità non riescono più a parlare né a Dio né di Dio né al proprio cuore - una scoperta drammatica, che spesso produce una rabbia e un dolore infiniti, ma che qualche volta può diventare una grande benedizione, se in quell'inferno inizia una resurrezione. Altri ancora, e sono i casi più tristi e molto comuni, continuano a vivere fino alla fine immedesimati col mestiere senza mai accorgersi di aver perso contatto con quella spiritualità che li aveva attratti.

Le comunità vivono e fanno vivere bene se aiutano le proprie persone a non perdere mai il dialogo sul "chi sei?". Se lasciano loro spazi liberi dell’anima e della vita da riempire (mai del tutto) con dialoghi personalizzati che alimentino le domande e riducano le risposte semplici e uguali per tutti. Perché le voci vere che ci chiamano conoscono solo il "tu" della seconda persona singolare: i nomi collettivi non funzionano per queste cose troppo serie. Funzionano solo se liberano dalle pratiche e dalla Legge per lasciare a ciascuno la libertà di conoscere e seguire lo spirito che parla a ciascuno in una lingua diversa. Le pratiche comunitarie sono buone solo se convivono con quelle individuali, nate da parole diverse sussurrate dallo stesso ideale-carisma, tutti i giorni, a tutti, nell'essenziale biodiversità. Ma tutto ciò è estremamente pericoloso e quindi molto raro. Sempre lì è il timore che le persone migliori e più attratte dalle vette scivolino dal crinale; che diventino talmente libere da non tornare a casa la sera, che dormano nei rifugi alpini per tentare all’alba nuove scalate solitarie delle montagne della giovinezza. E così, quasi sempre, le comunità riempiono tutti gli spazi interiori, affollano il panorama, e si ritrovano con persone meno vive e feconde ma più sicure e allineate - che stanno bene da giovani, male da adulti e da anziani.

Questi processi sono in massima parte inevitabili, e accadono in ogni vita comunitaria. Incluse le famiglie, dove dopo i primi tempi dell’innamoramento dominati da "chi sei?", si passa presto al "come funziona?". Ma, lo sappiamo bene, le famiglie non funzionano più se ogni tanto non ritornano le domande: "chi sei?", "chi sono?", "cosa siamo diventati?". Mosè, l’uomo che parlava con YHWH "bocca-a-bocca", non vide mai il volto di Dio. Conosceva e riconosceva la sua voce, non il suo volto. Una volta, una sola volta, al culmine di un dialogo meraviglioso con la voce, Mosè le chiese l’impossibile: «Mostrami la tua gloria!». YHWH gli rispose: «Io ti coprirò con la mano, finché non sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere» (Esodo 33,21-23). Le comunità devono imparare a stare docili sotto la mano dei propri ideali che copre i loro occhi. Accontentarsi della nuda voce. Sapere che in quelle rarissime volte in cui la mano è tolta vedono soltanto le spalle. Le prassi, le regole, gli oggetti del "culto" comunitario, sono solo copie del retro dell’ideale visto in qualche specialissimo momento di luce. Ma il volto, l’intimità e la luce degli occhi restano e devono restare mistero e desiderio, e, soprattutto, non vanno confusi con la schiena. Quando Maria Maddalena, in lacrime, incontrò il Risorto, non riconobbe il volto: riconobbe una voce mentre la chiamava per nome.


l.bruni@lumsa.it

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