L'integrazione sociosanitaria si fa a partire dalle comunità
martedì 16 giugno 2020

Fioccano riflessioni e proposte sull’agenda dei problemi per il "dopo"-pandemia, pur nella piena consapevolezza che siamo ancora nel "durante" e che tra i due momenti dovrà esservi un forte collegamento, almeno nel senso che una gran parte delle decisioni sul dopo sarà condizionata dalle decisioni prese ora. Tra i punti importanti dell’agenda vi è certamente il consolidamento del sistema sanitario, così da essere meno impreparati di fronte a nuove ondate pandemiche o ad emergenze impreviste di analoga natura. L’emergenza pandemica ha già indotto molti a un ripensamento circa taluni approcci del passato e a suggerire, in primo luogo, una valorizzazione del significato della salute come diritto sociale esigibile, caratterizzato dai connotati di universalità, globalità e accessibilità delle relative prestazioni e, in secondo luogo, a rafforzarne il collegamento con alcune delle acquisizioni più consolidate della comunità scientifica, quali la distinzione tra sanità e salute, la concezione della salute come determinata da una pluralità di fattori di contesto (la salute in tutte le politiche) e la promozione dell’integrazione sociosanitaria.

Soffermiamoci su quest’ultima. Sono abbastanza note le ragioni della difficoltà a realizzare quanto da oltre vent’anni compiutamente la normativa prevede: la preoccupazione storico-culturale di una sanitarizzazione del sociale; la perdurante assenza dei livelli essenziali di assistenza sociale (Liveas) a fronte di un consolidato catalogo dei Lea sanitari; la cronica debolezza del finanziamento delle prestazioni sociali tanto più in assenza di un aumento delle risorse destinate alla sanità. Oggi forse siamo finalmente nella condizione di realizzare l’integrazione sociosanitaria, sia perché sono venute meno le ragioni storico-culturali della diffidenza tra i due mondi, sia perché sono state destinate risorse che potranno permettere di declinare nello specifico le prestazioni e i servizi del Nomenclatore delle prestazioni e degli interventi sociali.

Dobbiamo però intenderci bene sulla nozione di integrazione, e in particolare comprendere che le vere sfide non attengono tanto a quelle tra le professioni (integrazione professionale) o tra i sistemi (integrazione gestionale), e neppure all’integrazione tra diversi Comuni (integrazione orizzontale) o tra Comuni, Province e Regioni (integrazione verticale), quanto piuttosto alla costruzione di una vera e propria rete che veda enti territoriali, enti funzionali, professionisti e volontariato-Terzo settore realizzare una autentica integrazione comunitaria.

In questa prospettiva, credo vada salutata con estremo interesse la previsione, all’interno del cosiddetto Decreto Rilancio (decreto- legge n. 34/2020), di piani di assistenza territoriale che potranno consentire una più compiuta azione di promozione della salute e di prevenzione, nonché una migliore presa in carico e riabilitazione delle categorie fragili.

Con ancora maggiore interesse credo si debba guardare a un emendamento, presentato all’art. 1 del decreto (dal capogruppo dei deputati del Pd Graziano Delrio e altri; ma l’auspicio è che su di esso convergano quante più forze parlamentari possibili, trattandosi, per definizione, di una proposta non di parte), con il quale si propone una sperimentazione di formule avanzate di servizi territoriali, intesi come un tassello importante di progetti di salute che vedano protagoniste le comunità stesse e alla costruzione dei quali partecipino in una alleanza territoriale gli enti locali, l’azienda sanitaria, il volontariato e il Terzo settore, la scuola, il mondo delle categorie economiche e del lavoro in tutte le sue rappresentanze, unitamente a quelle reti formali e informali che, localmente e nell’esercizio dei princìpi di solidarietà e reciprocità, contribuiscono al benessere collettivo.

La sperimentazione proposta, che si inserisce all’interno dei progetti attuativi del Piano sanitario nazionale, prevede espressamente modalità di intervento che riducano le logiche di istituzionalizzazione, favoriscano la domiciliarità e consentano la valutazione dei risultati ottenuti, anche attraverso il ricorso a strumenti innovativi quali il budget di salute individuale e di comunità.

Non si tratta di una sperimentazione 'a tavolino', in quanto il suo retroterra è costituito da una rete pluridecennale di istituzioni sociosanitarie e socioassistenziali, avente come capifila la Casa della Carità di Milano e la Fondazione Santa Clelia Barbieri di Alto Reno Terme (Bo), le quali si sono recentemente coordinate attorno al Movimento 'Prima la comunità' e hanno promosso un appello dal titolo assai evocativo e significativo: 'Ripartire dalla Case della Salute per rilanciare il welfare di comunità'. Ancora più significativo è l’assunto di base su cui insiste il movimento 'Prima la Comunità': il rischio di collasso del sistema di cura evidenziato dall’emergenza pandemia è dipeso soprattutto dal fatto che in Italia c’è un’insufficiente organizzazione dell’assistenza territoriale e domiciliare.

Torna dunque in primo piano un antico tema dell’agenda sociosanitaria del nostro Paese, che la Riforma sanitaria del 2012 (decreto- legge n. 158 e legge n. 189) aveva riproposto con forza e che la recente costituzione delle Unità speciali di continuità assistenziale ha ripreso e consolidato.

Non si tratta, qui e ora, di andare a ricercare le ragioni e i responsabili di un così lungo inadempimento attuativo, quanto piuttosto di cogliere l’occasione che si presenta per fare compiere al nostro Servizio sanitario nazionale e il Sistema integrato di interventi e servizi sociali quel salto di qualità che da anni studiosi e operatori invocano.

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