L'ibridazione del terrore
giovedì 13 dicembre 2018

Ancora una volta, come già a Berlino nel 2016, gli affollati mercatini natalizi, sorti all'ombra delle nostre chiese e che colorano i centri storici delle città europee, sono diventati il luogo prescelto per una nuova strage del terrorismo jihadista. Ancora una volta cittadini inermi sono rimasti uccisi o lottano per rimanere in vita, come il giovane giornalista Antonio Megalizzi. Il primo pensiero, e la prima preghiera è ovviamente per loro. Quei mercatini sono del resto un emblema fortissimo delle nostre tradizioni e della nostra cultura e il terrore, lo abbiamo imparato bene, si nutre avidamente di simboli su cui infierire. Ma l’orrore e il dolore di questi momenti non deve impedirci di analizzare razionalmente il fenomeno del jihadismo. Sconfitto infine Daesh in Medio Oriente lo scorso anno, la maggior parte degli esperti aveva previsto un aumento degli attacchi in Europa, effetto del ritorno di migliaia di combattenti islamisti nel nostro continente e della ripresa del jihad globale, dato che il progetto califfale era fallito.

Questa ripresa non vi è invece stata; anzi, nel 2018 si è registrata una diminuzione delle violenze. Altri avevano, al contrario e frettolosamente, già deciso di archiviare il terrorismo di matrice islamista come una cosa del passato. Non è così: la realtà è molto più sfaccettata e complessa. L’efferatezza jihadista è per sua natura mutevole, fluida, adattabile. Lo si vede bene anche in questo ultimo attacco, compiuto da un criminale comune, radicalizzatosi velocemente. Un cittadino europeo che doveva essere arrestato per reati comuni: fosse stata più efficiente la polizia francese, non ci sarebbe stato il massacro. Non avessero tentato di arrestarlo, forse egli non avrebbe infierito sui passanti. Perché questi 'nuovi terroristi' sono un mix di radicalità, delinquenza, emarginazione. Il dato del fanatismo religioso spesso è solo il tentativo di 'sacralizzare' (per quanto in modo perverso) disagi sociali, psicologici, economici, frustrazioni e fallimenti personali.

Dinanzi a questa ibridizzazione del terrore, il compito di chi deve proteggerci diventa molto più difficile, perché la platea dei possibili attentatori si allarga pericolosamente. Soprattutto in Paesi come Francia, Belgio e Gran Bretagna, ove il fallimento dell’integrazione dei figli delle minoranze coloniali ha prodotto enormi aree di emarginazione e malcontento nichilista. Proprio questa difficoltà deve spingerci a non reagire per slogan, ma a evitare le due trappole opposte: quella del ritenere il terrorismo jihadista una manifestazione residuale di un passato che non tornerà o quella di sovraenfatizzarne la minaccia. Che esiste, ma che non deve essere ingigantita. Occorre indubbiamente incrementare la nostra capacità repressiva, che in Italia è già molto buona, e lo sarebbe ancor più se il nuovo Parlamento, che si distingue per la sua inattività, riprendesse e approvasse il progetto di legge Dambruoso- Manciulli, impostato nella scorsa legislatura.

Ma la repressione non basta. Né serve «chiudere i porti e le frontiere», come ha subito proclamato il nostro ministro dell’Interno. Perché molti degli attentatori in Europa sono cittadini d’Europa e non già immigrati irregolari. Quanto occorre è invece affiancare alle politiche repressive una più coerente e integrata azione di prevenzione e di contro-radicalizzazione. Limitarsi a mettere in galera chi è sospettato di estremismo violento serve solo a estremizzarlo ulteriormente. È noto che le galere, soprattutto quelle dove si è carcerati e basta, sono ovunque le 'università del crimine' e ora anche del jihad. Dentro e fuori quelle mura di prigione occorrono programmi di controradicalizzazione e di deradicalizzazione, che in vari Stati sono già sperimentati. Iniziando dalle scuole, e dalle comunità islamiche le quali, se fossero istituzionalizzate e regolamentate, potrebbero agire meglio quale argine alla narrativa jihadista. Sono i ghetti, la demonizzazione e la retorica manichea che aiutano i terroristi a insinuarsi nelle nostre città cosmopolite. Non il rifiutarsi di rinnegare la nostra civiltà e i fondamentali princìpi umanitari che la reggono.

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