Perché è vitale capire i rischi della guerra alla solidarietà
giovedì 9 maggio 2019

Caro direttore,
guerra alla solidarietà: il tema è attualissimo ancorché poco discusso e poco seguito dai media. Per questo 'Avvenire' lo ha messo al centro di una mirata campagna informativa. Per questo va raccolto l’allarme lanciato domenica 28 aprile in un’intervista a Stefano Zamagni e in un editoriale che lei stesso, direttore, ha scritto: le reti solidali, tutte, Terzo settore compreso, non solo non sono sostenute, ma sono sotto attacco da parte di una politica miope e di un governo che vara 'dall’alto' il Reddito di cittadinanza e si dimostra ostinatamente ostile alla solidarietà 'dal basso'.

E qui la mente corre a ciò che il Censis, e in particolare Giuseppe De Rita, dicono da tempo: la crisi dei corpi intermedi è antica e la malattia molto avanzata. Tutta la stagione della cosiddetta Seconda Repubblica è stata segnata dal tentativo di negare o comunque di mettere sotto scacco in vari modi questo grande e variegato mondo. Si è cercato di disconoscerne il valore numerico e l’apporto al Pil. Poi, si è tentato di svilirne l’utilità sociale.

E così via, fino a considerarlo nel suo insieme solo come lobby di interessi oppure addirittura di criminalizzarlo come è accaduto alle Ong. Mentre i fatti dicono che con la crisi dei partiti e dei sindacati restano solo l’associazionismo e il cooperativismo a tenere alta la bandiera della libera iniziativa dei cittadini nel campo dell’azione sociale. Il civismo e tutto ciò che rientra in questa larga categoria, così come il solidale e il puramente volontario, rappresentano la base stessa della qualità e della tenuta della società italiana. Senza ciò, la nostra società si impoverisce e muore.

La crisi italiana è una crisi di senso prima che qualunque altra cosa: troppi italiani non sanno più a cosa servono, non hanno più un’idea di futuro e di visione del proprio Paese. Di conseguenza tendono a rinchiudersi nel particulare. Ma c’è ancora la società civile organizzata a dare senso alla vita del Paese. Magari in maniera incompleta e con molti limiti, ma c’è e fa. La dinamica della società non dipende solo dall’andamento dell’economia. Se manca lavoro perché l’economia rallenta, non basta un reddito alternativo gestito dallo Stato (e quindi malamente a causa di limiti oggettivi), serve piuttosto una dinamica di creazione di attività nuove. Si pensi ai mestieri della cultura, ai mestieri legati alla cura della persona, o ai nuovi mestieri dell’economia green e all’agricoltura bio. Sono tutti settori in cui sono protagonisti il Terzo settore, il cooperativismo, il non profit e anche il volontariato. La politica della progressiva disintermediazione - durante la cosiddetta Seconda Repubblica e all’inizio di questa che già viene chiamata Terza Repubblica - punta invece a statalizzare (o regionalizzare, che in questo senso è lo stesso) praticamente tutto, togliendo poco a poco l’iniziativa dalle mani dei cittadini.

C’è dietro l’idea che questi ultimi debbano essere inquadrati e guidati (più di sinistra) oppure che non ci si possa fidare della loro libera presa di responsabilità (più di destra). Il risultato è lo stesso: tarpare le ali a chi vuole operare, cercando in tutti i modi possibili di equiparare Terzo settore e non profit all’impresa privata. Ma se essa va liberata da 'lacci e lacciuoli' come si usa dire, anche il Terzo settore non deve essere imbrigliato, umiliato, fatto fallire. Il valore sociale delle attività non profit e di solidarietà rappresenta il vero plusvalore di cui ha bisogno la società. Una vera politica di sviluppo nazionale tiene conto di questo e crea sinergie sul territorio, lasciando a ciascuno il suo spazio. Così anche una vera cooperazione allo sviluppo all’estero crea sinergie tra settore privato e Terzo settore per favorire entrambi ed essere efficace. Soprattutto una sana politica democratica lascia la libertà ai cittadini di esprimere concretamente il diritto-dovere di occuparsi del proprio Paese e del suo futuro.

Esponente di Demos, già viceministro degli Esteri

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