L’eterno cuore dell’«odio globale»
martedì 26 febbraio 2019

Un 'nuovo antisemitismo' si aggira per l’Europa. Nei momenti di crisi, quando cresce la paura e si alzano i muri, non vengono colpiti solo gli immigrati, ma torna anche il 'nemico innocente' di sempre, l’ebreo. Troppo simili e insieme considerati diversi, gli ebrei inquietano cuori e menti chiusi nei propri timori. Nel dopoguerra, dopo la Shoah, è stata eretta una sorta di barriera per impedire il discorso razzista e antisemita; ma oggi, appena finite le iniziative per gli ottanta anni delle leggi razziali italiane, si assiste a una sorta di 'liberazione' della violenza verbale e della denigrazione, dell’insulto del pregiudizio, insomma dell’ostilità verso il bersaglio di sempre. Cimiteri profanati, scritte ingiuriose, cori allo stadio.

Il web diffonde messaggi e meme che confermano l’avversione. Cresce in Italia e in Europa questo odio sottile, banalizzato e diffuso che può portare in ogni momento a gesti o atti criminosi. Le ingiurie a Alain Finkielkraut (peraltro spesso polemico verso la società aperta e l’immigrazione) da parte dei gilets jaunes a Parigi ha provocato una reazione morale e una forte preoccupazione: dietro quegli attacchi 'antisionisti' si nasconde un vero antisemitismo? La questione è molto complessa.

Chi si occupa del tema sa bene che gli atti ostili contro gli ebrei seguono in parallelo gli eventi in Medio Oriente e che una delle tante forme del 'nuovo antisemitismo' ha origine nelle accuse a Israele per la questione palestinese. Già nel 1974, in una ricerca sull’antisemitismo a Roma, si osservava la nascita di un corto circuito per cui gli ebrei venivano assimilati allo Stato di Israele e, negli ultimi anni, la questione dell’antisemitismo è divenuta inseparabile dalla guerra Israele-Palestina.

Il termine Sionismo (da Sion, antico nome di Gerusalemme) è stato coniato alla fine del XIX secolo per indicare il movimento nazionalista e l’ideologia politica che intendeva restituire una terra e una patria agli ebrei in diaspora. Ha suscitato un’opposizione di marca liberale, socialista o ebraico-ortodossa. Tale opposizione non è la stessa cosa dell’odio antisemita che vuole distruggere gli ebrei come 'entità'. Si può essere antisionisti senza per questo essere antisemiti. Tuttavia, oggi, sempre più spesso, non siamo di fronte alla legittima critica alla politica di Israele, ma a uno scivolamento verso i cliché antisemiti del passato.

Già nel 1988 un Documento del Pontificio Consiglio per la giustizia e la pace su 'La Chiesa e il razzismo' osservava che il rapporto tra antisemitismo e antisionismo non era di identificazione, ma «l’antisionismo – che non è dello stesso ordine, poiché riguarda lo Stato d’Israele e la sua politica – serve talvolta come uno schermo per l’antisemitismo, alimentandolo e portando a esso». Insomma, esiste un pericoloso amalgama tra i due atteggiamenti; l’antisemitismo può riemergere e si può nascondere dietro la critica a Israele. Accanto all’antisemitismo di 'destra' razzista si diffonde sempre di più quello terzomondista e anti-imperialista, forse perché, come osserva Gadi Luzzatto Voghera, sembra più presentabile di quello 'classico' che ha portato alla Shoah; mentre la memoria impallidisce, scrive il rabbino Jonathan Sacks, si accusa di razzismo Israele.

La sua diffusione tra gli immigrati musulmani e le giovani generazioni islamiste radicali fa il resto. Molti rivendicano il diritto di criticare Israele. Ma si passa il confine quando si difende la causa dei diritti umani solo dei Palestinesi, quando dagli 'ebrei' si passa all’'ebreo', quando si tende a sottolineare e esagerare l’influenza di Israele, quando le illustrazioni alludono al deicidio da parte dei soldati israeliani, sovrappongono l’idea del capitale ebraico alla politica israeliana e così via. Per contrastare l’odio del XXI secolo bisogna decifrare l’amalgama tenendo conto del potere dell’immaginario collettivo nel rievocare miti e menzogne. Si devono individuare le zone d’ombra che fanno dell’antisemitismo un nodo cruciale, una sorta di luogo simbolico in cui si gioca la possibilità di apertura all’altro e alle differenze, oppure la chiusura nel pregiudizio e nell’intolleranza. L’altro viene destoricizzato, ridotto a simbolo, categorizzato anziché considerato nella sua specificità e nei suoi tratti di comune umanità. L’odio globale – fosse verso ebrei, musulmani, rom, immigrati, donne o altri – va contrastato in tutte le sue forme.

Ordinario di Pedagogia, Università Cattolica del Sacro Cuore

e vicepresidente del Memoriale della Shoah di Milano

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