Questo male e la memoria dell’altroieri
domenica 18 ottobre 2020

In questo autunno che va sprofondando di nuovo nella paura penso spesso a mia nonna. Nata sull’Appennino parmense sul finire dell’Ottocento, tanti fratelli su una terra avara. Il gelo d’inverno, le malattie che falciavano i bambini e non lasciavano che gli adulti diventassero vecchi. Poi, a Parma, questa mia nonna diventa madre di mio padre e delle sue sorelle. Anni Venti: né vaccini, né antibiotici. Ogni volta che a un figlio saliva la febbre c’era da tremare: era cosa da poco o invece un’infezione maligna, quella che faceva scottare la fronte per giorni, e non se ne voleva andare? Penso alle notti, alle infinite notti di generazioni di madri chine su un figlio malato, che chissà se sarebbe guarito. E quante volte nei lunghi inverni, per malanni banali, nelle case moriva un bambino. Era dolorosamente 'normale', era, ancora o quasi, il destino degli uomini, nei secoli, da sempre. Poi, dopo la guerra, arrivarono gli antibiotici. Molte malattie guarivano in un batter d’occhio, con quella nuova straordinaria medicina.

Chissà, nei primi anni, lo stupore nel vedere certi febbroni possenti, di colpo, dissolversi e svanire. Curati, vaccinati, ben nutriti, i bambini del boom italiano smisero di morire. Già nella mia generazione era un evento eccezionale, che un bambino morisse di malattia. E quando madri e padri siamo diventati noi, era totalmente impensabile che un’influenza non si risolvesse in pochi giorni. Un caso di meningite, era un titolo sui giornali. Noi, venuti al mondo dopo l’avvento degli antibiotici, siamo la prima generazione che ritiene la salute una cosa, finché almeno si è giovani, garantita – tranne drammatiche, ma fortunatamente rare eccezioni.

E dunque mi chiedo come questa mia nonna starebbe, se fosse viva, di fronte al nuovo allargarsi del Covid. Forse, con un certo stupore. Donna di un altro evo, fin da piccola consapevole che è possibile ammalarsi e anche morire, non capirebbe tutto il nostro sconvolgimento. Noi, cresciuti nell’idea che la salute sia un 'diritto', di colpo ci troviamo disarcionati dalla sella, nello scoprire che per questo virus non c’è per ora cura, e può accadere perfino a un giovane di non farcela, e morire.

Sbalordimento: la morte si riaffaccia al nostro orizzonte. Puoi anche essere forte, e non temere per te; ma, e i figli? Le vocianti movide notturne, spensierate e quasi sfrontate. Come certi, a vent’anni, di essere immuni: e che comunque non è possibile che non esista un farmaco, che nel caso guarisca i corpi giovani e sani. Le madri dei ragazzi che si ammalano gravemente di Covid oggi tornano a essere, nell’animo, quelle di cento anni fa: sgomente, impotenti, tese al minimo segnale di miglioramento.

Con un intollerabile, indicibile pensiero in fondo al cuore. Perché non c’è più certezza, non c’è la 'garanzia' di guarire. Notti che somigliano a quelle di mia nonna e di milioni di donne, prima. Cerco di immaginarle: luci fioche in case immerse nel buio, le strade attorno deserte, solo la madre a vegliare.

La febbre sale, la fronte brucia, il figlio mormora parole senza senso, poi come dalle viscere chiama: 'Mamma!' E loro lì a rinfrescare il viso con un fazzoletto bagnato, a porgere un bicchiere d’acqua. Aspettando l’alba, quando la febbre scema. Canta un gallo, il cielo si fa chiaro, un’altra lunga notte è passata. Milioni di notti di milioni di madri sono state così. Noi, madri di figli venuti su a omogenizzati e vitamine, regolarmente vaccinati, queste notti non le sapevamo. La pandemia è anche un salto indietro nel tempo. Ma come starebbe mia nonna, oggi? Forse ci osserverebbe un po’ stranita del nostro sbigottimento, del nostro scandalo, dell’ossessione che a volte si impadronisce di noi.

Ma non lo sapete, direbbe meravigliata, che nemmeno un giorno ci è garantito, e che la nostra vita non ci appartiene? Cos’è questo panico che vi paralizza, e vi rende diffidenti e egoisti? Sembrate quasi indignati, perché a questo male non c’è cura. Sembrate uomini cui non è stato insegnato a domandare, e a pregare.

E nelle sere in cui, chiuso l’ultimo tg, pensi ai figli con un’ansia nuova, vorresti avere qui la nonna Dina, con le sue mani ruvide e la sua faccia forte. Forte non di sé stessa, ma di una fiducia tramandata: che si vive e si muore, ma in Dio. Nel disegno di un Dio che vede e abbraccia ogni uomo. Vorresti essere come lei: una madre antica che regge il dolore, ma persevera nella speranza. In mille interminabili notti, e in mille albe: leonina ma quieta, e ostinata.

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