sabato 6 agosto 2022
Il filosofo Silvano Petrosino rievoca le traversate sull’Autosole per raggiungere la città di famiglia. «Napoli mi riempiva con i suoi odori e sapori, io osservavo senza giudicare»
Il filosofo Silvano Petrosino

Il filosofo Silvano Petrosino

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Non era un “giovane wannabe”, come si dice e si canta oggi, non era un ragazzo già pronto a conquistarsi il suo posto nel mondo: le ambizioni di realizzazione, un tempo, erano un peso che si incominciava a portare da adulti. Ma l’Autostrada del sole conduceva al mare, ed era il portone d’ingresso a quello che col tempo sarebbe diventato il suo luogo del cuore. Viaggio in cinque: papà, mamma, due sorelle poco più grandi, e lui non ancora maggiorenne; le scorte alimentari del caso, che l’autogrill era solo un luogo di sosta, non ancora un ristoro di lusso. Destinazione Napoli, quartiere Mergellina: città di vicoli e parentele, con vista mare.

Da filosofo della modernità, il professor Silvano Petrosino ha già scritto (assai e bene) sull’abitare e sul desiderio, sugli idoli e sui fantasmi, sull’homo oeconomicus e sul suo più grande nemico, l’imprevedibile. Non lo dice, ma la questione di un luogo “del cuore” gli evoca un nonsoché di banale. Difficile immaginare che in futuro possa scriverne. Però, se non altro, accetta di parlarne. Si parte senza girarci intorno: l’Autosole come una grande traversata verso la città di famiglia. Napoli, appunto. «Nella capitale partenopea vivevano tutti i parenti e fino alla maggiore età – racconta – quelle sono state le mie vacanze. L’agosto non prevedeva alternative, almeno fino alla morte di mio padre: Napoli bastava. Mi riempiva con i suoi odori e con i suoi sapori e l’ho vissuta osservando senza giudicare. Questa sorta di innocenza è stata la mia fortuna ». E subito spiega: «Mi ha salvato dal trauma della scoperta di quanto possano essere complesse e dolorose le relazioni familiari. Mi ha salvato dalle beghe della famiglia allargata, da tutte quelle piccole battaglie “tribali” che il grande Eduardo ha raccontato in maniera straordinaria. Allora avevo uno sguardo innocente, ed è abbastanza naturale che invece, a distanza di anni, veda le magagne di quel luogo, di quelle famiglie e, in qualche modo, di tutte le famiglie».

L'esperienza personale che diventa universale; una sensazione che diventa un’ipotesi: i luoghi dell’anima come riserva dove ritrovare l’innocenza perduta. «Nel momento in cui c’ero e vedevo in prima persona, quelle circostanze così subdolamente conflittuali o rivendicative non mi ferivano e non mi facevano reagire. Oggi – aggiunge – non sono più un problema. Il luogo del cuore è tale in quanto non presuppone né determina un giudizio. È un luo- go senza giudizi. E non solo rispetto alle vicende familiari. Che gli autobus non passassero o che ci fosse l’immondizia per le strade per me era irrilevante. E ancora adesso, quando torno a Napoli – e ormai accade solo per motivi accademici – rivivo proprio quella sensazione di giudizio sospeso. Quelle contraddizioni non erano un problema. E a dire il vero, in questo Napoli è stata per me davvero unica, è una città perdonata a prescindere, verso la quale sento di non nutrire alcuna forma di risentimento». Torneremo su questa sospensione, ma prima c’è spazio per un piccolo tuffo nella concretezza di quegli anni lontani: «Stanza ammobiliata a Mergellina, con cucina comune. Nessun lusso, in cinque ma con il mare sullo sfondo. Le mie sorelle più grandi che uscivano la sera. A me bastava osservare, non era tempo e luogo per giudicare».

Il pensiero corre a un’altra categoria tipica del pensiero del professor Petrosino: l’abitare come una sfida a custodire: vale anche per le sue vacanze napoletane? «Custodire è rinunciare a far tornare i conti secondo la modulazione rivendicativa: quella zia avrebbe dovuto… E poi quella volta mio cugino... Custodire non è solo perdonare, fare come se non fosse successo niente. È di più: è non fare infettare le ferite, per renderle invece feconde. A ripensarci, ci sarebbe molto da recriminare su quelle vacanze, su quel luogo e su quelle relazioni: ma custodirle come tali, senza condizioni, si- gnifica resistere alla tentazione di trasformarle in obiezione. I luoghi del cuore, tra le altre cose, servono a ricordarci che nella vita dobbiamo resistere alla tentazione di trasformare – come ripeto spesso – una condizione in obiezione».

Dalle profondità dei ricordi tornano a galla immagini che sono emozioni ormai depositate nella memoria: «Penso, per cominciare, al valore di alcuni dettagli: Anna, la signora presso cui eravamo ospiti, che portava il caffè a mio padre mettendo un piccolo tappo di sughero al beccuccio della caffettiera. Doveva fare un lungo corridoio prima di versarlo e ci teneva al fatto che il caffè non perdesse l’aroma. Se dovessi spiegare cos’è il rispetto, non troverei un esempio migliore. E poi la luce e gli odori. Quando senti l’odore dell’aglio, quando una certa luce ti abbaglia, ti si accede dentro una spia e non ti fermi a quella sensazione, ma quasi ti commuovi. Ecco, quella spia è un richiamo al grande mistero della vita, al fatto che “siamo vivi”. Penso alla solita storia dei pesci, che non si interrogano mai sull’acqua, mentre a noi può capitare, e i luoghi del cuore da questo punto di vista sono un contesto propizio, di sentire più intensamente il tema della vita che ci è stata donata».

Vacanza in città, dunque. Non proprio mainstream e non facili da riempire: «Napoli è una città divisa: da una parte è il mare, dall’altra parte no. Per noi era soprattutto il mare. La pesca delle cozze… e pure l’epatite, con l’aggravante di un mese e mezzo di ospedale. Non c’era tanta roba, ma intorno a quella semplicità mi ero “creato” un mondo strepitoso. Il pesce arrostito in spiaggia, c’era già il sushi, che poi significava assaggiare il pesce appena pescato; e il gommone, che per noi era uno yacht. Pensando a quelle situazioni ho poi capito che non serve l’aragosta per fare un grande piatto; che per stare bene devi essere pacificato con il tuo desiderio. E poi c’è quella volta che papà ci disse: andiamo a mangiare ai “Bassi” – così chiamavano certi appartamenti ai Quartieri spagnoli, che non erano quello che sono diventati oggi. Non si andava al ristorante, si andava nelle case: una signora ci fece accomodare nella sua cucina e preparò pasta alla genovese e polpette. Non ricordo le mie sorelle, ma quell’“uscita” a me era piaciuta tantissimo. Lo ripeto: non ero solo spensierato, ero pacificato».

Difficile non pensare alle opere di grandi artisti napoletani e ancora più difficile resistere alla tentazione di chiedere chi – fra Sorrentino, Troisi o Eduardo – ha raccontato meglio Napoli. «“È stata la mano di Dio” è molto felliniano e, soprattutto nella prima parte, lo trovo coraggioso e autentico. Di fronte al dilemma – Maradona o il sesso – scegliere il campione argentino significa inseguire il sogno e l’incalcolabile. Quanto a Troisi, mi basta ricordare quello che Eduardo gli chiese a bruciapelo, evocando un altro tema molto napoletano: “tu sei capace di soffrire?”. Però, alla fine, De Filippo è di un altro pianeta, un gigante: il Nobel l’avrei dato a Eduardo non a Dario Fo. Le sue commedie sono di una profondità straordinaria; sono un continuo ritorno sul tema della famiglia, sulla complicazione irredimibile che attanaglia i legami di sangue. Io non sono pessimista, non penso che la famiglia sia una prigione. E quindi mi sono convinto che la “critica familiare” di Eduardo possa essere letta non solo come una denuncia, ma anche come un elogio della centralità dei legami, della loro natura sovrannaturale, quasi salvifica, se così si può dire».

Così, alla fine, l’idea che esista un luogo del cuore potrebbe non essere una banalità da terza pagina estiva, ma qualcosa di più profondo e ricco di senso. «Luogo del cuore è quello che ti ha fatto vivere in serenità pezzi di vita in cui avresti potuto essere arrabbiato. Io ho vissuto le vacanze napoletane in modo spensierato e pacificato, avendo accanto mio padre, mia madre, e le mie sorelle. Allora non chiedevo altro. Sono luoghi in cui ti senti vivo e dove puoi scoprire il valore dell’essenziale. Uno zio, per chiudere con un aneddoto, insieme a sua moglie faceva il factotum di Achille Lauro (l’armatore, ovviamente, non il cantante, ndr): si occupava della gestione della sua villa di Massa Lubrense e, seppur in modo laterale, ha visto il lusso e l’eleganza, anche enogastronomica. Mi era capitato di andare a trovarlo: io non ricordo la villa, ma solo il piacere del riso con l’olio e i pomodori freschi schiacciati dalle sue mani; neppure dimentico il pane servito solo con la mozzarella sgocciolante».

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