lunedì 14 luglio 2014
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Le leggi, a volte, sembrano un labirinto di difficile percorso e persino di difficile comprensione, quasi una selva intricata che mostra i suoi viluppi e continuamente prolifera, non sempre in modo coerente. Non sempre in modo legittimo, non sempre in modo giusto. Ci sono infatti leggi giudicate illegittime nel confronto con i princìpi costituzionali che hanno violato; e ci sono leggi ingiuste se infrangono il principio etico supremo del bene in cui risiede la radice della giustizia, il "dare a ciascuno il suo". Noi abbiamo, per il controllo di legittimità delle leggi, la Corte costituzionale. Essa le può falciare, sfrondarne i rami secchi, strappare radici; e in tal modo correggere l’errore, o quel che le sembra errore. Per il controllo di giustizia intrinseca delle leggi non abbiamo che il livello della nostra civiltà quale si riflette nelle scelte affidate agli organi elettivi che fanno le leggi per noi, per il "bene comune" e dunque per il bene. Accade a volte che la decisione della Consulta di strappar via una norma cagioni un buco nel tessuto dell’ordinamento, che è necessario poi rammendare con un lavoro ricostruttivo, non bastando accostare i lembi del taglio e incollarli. L’esempio più recente e clamoroso è quello che riguarda la fecondazione eterologa: una volta fatto cadere il divieto, il raccordo con le altre norme già congegnate in coerenza con l’esclusione dell’eterologa, l’esplorazione di regole nuove di praticabilità (ovviamente impreviste, e da definire), il confronto con i princìpi fondamentali e ordinari dell’ordinamento giuridico nostro in tema di filiazione, ci hanno posto davanti a una specie di ginepraio. Che non toccherebbe nemmeno alla Corte districare, riscrivendo a suo modo il paesaggio risultante, come qua e là tenta di fare. Spetta al legislatore. A volte persino vien chiesto espressamente al legislatore di emanare una nuova norma, in luogo di quella bocciata (e frattanto il buco resta e non si sa che fare, come nel caso del matrimonio sciolto per cambio di sesso).In questi giorni, dopo le segnalazioni allarmate di magistrati in prima linea raccolte da questo giornale, è sotto la lente la legge antidroga. Come è noto, la Corte ha bocciato nel febbraio scorso la norma che nel 2005 aveva unificato le droghe pesanti e le droghe leggere sotto unica pena (da 6 a 20 anni). L’aveva colpita non perché fosse sbagliata in sé, ma perché inserita in sede di conversione in un decreto-legge di oggetto diverso. Così le pene sono tornate quelle di prima: da 8 a 20 anni per le droghe pesanti, da 2 a 6 anni per le droghe leggere. E per i trafficanti di hashish la minaccia legale è tornata al livello basso.Peraltro, con quella sentenza s’era però fatto più aspro il trattamento dei tossici, circa la commutazione di pene con lavori di pubblica utilità. Al punto in cui siamo, la situazione è passata sotto il controllo del legislatore, con il decreto legge n. 36 di marzo e la legge di conversione n. 79 del maggio scorso. Dunque l’impianto attuale, le tabelle separate, le pene, il trattamento, i programmi, tutto appartiene alla scelta fatta dal legislatore; sicché mi sembra che si possa concentrare lo sguardo non più su quello che ha deciso la Consulta – per il solo vizio d’origine – ma su quello che adesso hanno deciso, liberamente, il Governo e il Parlamento. Qui sta il punto. È stato "scelto" di rifare le tabelle distinte, portandole da quattro a cinque; di reintrodurre (giustamente) le pene alternative per i tossici già previste dalla Fini-Giovanardi, ma anche di abbassare la pena per i casi "di lieve entità" (senza distinzione del tipo di droga). Il terreno è ora questo, qui stanno i conti da fare. In quest’intrico difficile, resta infine il quesito ultimo di una legge "giusta". Da rimettere a punto, se occorre, anche in futuro, capendo le differenze, imparando dalle emergenze. Ci sono uccellacci e uccellini, certo, e a ciascuno il suo; ma la droga è un tale flagello che le maglie lasse somiglierebbero ai rimedi di un medico pietoso che fa la piaga cancerosa.
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