giovedì 21 settembre 2017
L'intesa innovativa per i metalmeccanici traccia per rimettere davvero la persona al centro dell'attività puntando anzitutto sulla formazione
Lavoro a umanità aumentata
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Libertà, creatività, solidarietà sono le punte della stella polare verso cui muovere tutti coloro che hanno scelto di costruire un nuovo pensiero del lavoro. Rilanciare la speranza di una nuova e migliore condizione umana rimette al centro il lavoro, l’economia e la sua umanizzazione. Le poche settimane che ci separano dalla legge di bilancio e i pochi mesi che ci dividono dalle elezioni rischiano di ridurre gli importanti temi dell’agenda politica a terreno di scontro della campagna elettorale: in primis il lavoro, terreno che necessiterebbe di una de-ideologizzazione delle posizioni e di una comune capacità d’azione. Guerra di cifre, ostentazione di totem non negoziabili, danno il senso della scarsa autentica passione attorno alla questione 'lavoro'.

In senso opposto, discontinuo, fuori schema, si sono mossi i sindacati dei metalmeccanici il 26 novembre del 2016 siglando un contratto che, senza timore di cedere alla retorica, possiamo definire 'storico'. Storico non solo perché il testo alla base dell’intesa contiene alcune novità di grande rilievo rispetto agli ultimi decenni di contrattualistica, ma soprattutto per il suo carattere di 'eccezionalità' rispetto al contesto ostile in cui è maturato: la crisi ancora diffusa, la deflazione e un passato recente di scontri durissimi sul piano sindacale. Il risultato è un accordo che avvicina la contrattazione alle persone e ai luoghi di lavoro; che rafforza la contrattazione decentrata e lega strettamente produttività e aumenti nella forma di premi di risultato del tutto variabili e incentivanti; che chiarisce le ambiguità della sovrapposizione dei due livelli contrattuali che in questi anni hanno indebolito il contratto nazionale e quello decentrato; che realizza passi avanti sul terreno della partecipazione grazie all’introduzione dei comitati consultivi nelle grandi aziende. Sotto quest’ultimo aspetto viene sancito per la prima volta il coinvolgimento, ancorché a livello solo consultivo, nelle scelte strategiche. È un contratto che inoltre conferma e rafforza alcuni aspetti in cui la Fim Cisl crede da tempo e su cui ha puntato: dall’assistenza sanitaria integrativa (mètaSalute), che andrà a più di un milione di lavoratori, alla previdenza complementare (Fondo pensione Cometa).

Linsieme di queste misure dimostra a sufficienza che invece di parlare e abusare della nozione di 'centralità della persona', abbiamo tentato di realizzarla davvero, come conferma l’introduzione del diritto soggettivo alla formazione, senz’altro uno dei capitoli più innovativi dell’accordo, che lo ha reso così importante. Ci siamo mossi cioè, con il riconoscimento del ruolo fondamentale che sempre più giocherà il miglioramento delle competenze, verso il superamento definitivo della logica fordista che ha contraddistinto la fabbrica nel Novecento, e dei rapporti gerarchici che ne erano il corollario. Nel futuro prossimo ogni lavoratore cambierà in media sette aziende nel corso della sua vita professionale: fornirgli gli strumenti affinché la transizione da un lavoro all’altro sia sentita come un’occasione di crescita e non come un motivo di ansia è il dovere di un sindacato che si muove in avanti. La formazione, dopo la salute, è il diritto più importante per il lavoratore, deve essere contemplata in ogni rapporto di lavoro. Questo contratto rimette al centro quello che i metalmeccanici fecero nel ’73 con le 150 ore, battaglia che portò un milione di lavoratori a conseguire il diploma della scuola dell’obbligo. Ora la battaglia è colmare subito il gap di competenze digitali e costruire un sistema life long learning dentro e fuori la fabbrica.

Ora è importante non disperdere questo patrimonio. La partita del lavoro, e soprattutto del suo futuro, si gioca infatti anche sul terreno della politica; ciò richiede una classe politica illuminata e lungimirante, in grado di varare al contempo politiche sociali, formative e industriali tra loro coordinate. Insomma di 'fare sistema', un esercizio di cui in Italia siamo letteralmente incapaci. Il sindacato ha dimostrato negli anni di crisi di saper stare in partita. Gli accordi che abbiamo firmato con Fca eWhirlpool – due esempi tra i tanti che si potrebbero fare – hanno consentito di salvaguardare l’occupazione grazie al ritorno di produzioni delocalizzare in precedenza. E hanno anche dimostrato che l’innovazione, diversamente da quanto sostiene la vulgata corrente (emblematica l’assurda disputa sulla tassazione dei robot), non rappresenta il male, ma anzi ne è spesso la sua soluzione, visto che è proprio la carenza di innovazione che ha provocato i danni peggiori all’industria italiana.

Alcuni studi (da ultimo quello di Nomisma) stimano che i Paesi che sapranno essere protagonisti di questa partita vedranno crescere il loro settore manifatturiero del 6%, e la stessa Ue indica tra gli obiettivi strategici quello di portare al 20% la quota del Pil generata dall’industria. Al riguardo il tema della piccola impresa è centrale per il rilancio della manifattura italiana poiché è sul territorio che si gioca la vera sfida della partecipazione e della contrattazione. Sono le piccole e medie imprese, infatti, a costituire la nervatura del nostro sistema produttivo. Rispetto a tedeschi e scandinavi la taglia dimensionale delle nostre imprese è più piccola, per questo abbiamo bisogno di forme di partecipazione in grado di favorire una vasta azione di aggregazione delle Pmi. Oggi il 90% circa degli occupati lavora in aziende sotto i 20 dipendenti. Queste realtà faticano ad accedere all’innovazione, il che comporta un grave rischio, cioè che la rivoluzione digitale già in atto diventi appannaggio solo delle grandi imprese. In questo senso la contrattazione territoriale deve essere qualcosa di utile e innovativo. Serve più coraggio da parte delle associazioni datoriali.

Grande attenzione va riservata anche alla semplificazione: bonus, incentivi e fondi di garanzia vanno resi più accessibili dal punto di vista burocraticoamministrativo. Il piano Calenda rappresenta un primo importante provvedimento in questa direzione. Gli ultimi dati sulla produzione industriale resi noti dall’Istat sembrano confermare che gli incentivi varati dal governo hanno stimolato gli investimenti delle imprese, anche se non possiamo ignorare che molte aziende in realtà stanno finanziando tecnologie basiche e che, pure in questo ambito, si sta aprendo un divario preoccupante tra Nord e Sud. Centrale rimane, però, l’investimento sulle persone, a partire dalla loro formazione. Chi dice che bisogna sospendere la decontribuzione alle aziende che assumono giovani, che fanno formazione o che investono in tecnologia, deve dire chiaramente che vuol premiare chi porta i capitali, fuori dall’impresa, nella rendita, nella speculazione o all’estero. Se il lavoratore del futuro sarà un lavoratore professionalizzato, con un ruolo e un ingaggio cognitivo crescente, è inevitabile che questi diventerà sempre più stakeholder (un portatore d’interessi) centrale dell’impresa. In questo quadro la linea evolutiva delle relazioni industriali deve prevedere un salto di qualità in senso partecipativo. Tutto ciò manderà in soffitta le relazioni industriali basate sull’antagonismo o prive di autentica autonomia delle parti, così come non resterà più spazio per una loro interpretazione – a dire il vero ancora piuttosto diffusa – in chiave 'padronale'.

Il ruolo della rappresentanza, dunque, non è affatto finito, ma va alzato il livello dell’incontro tra impresa e lavoratori. La smart factory la 'fabbrica intelligente e agile' non funziona senza le persone, e neanche senza la smart union, vale a dire un sindacato competente, che studia, ascolta ed è capace di guardare le spalle alle persone promuovendole nel lavoro. Per queste stesse ragioni non ha più senso la proliferazione dei soggetti sindacali. Modelli evoluti di partecipazione si realizzano nei Paesi in cui si sono ridotti il numero dei sindacati (mai più di due), quello dei contratti collettivi e quello delle categorie sindacali. Nella creazione e nello sviluppo di un ecosistema 4.0, sarà ancora decisivo chi orienta con la sua capacità propositiva il potere del lavoro verso la partecipazione, specie in un momento in cui va affermandosi sempre più un lavoro che non è autonomo né propriamente dipendente, ma sempre più modellato su un progetto. È su questo che dobbiamo riflettere, rifuggendo da tentazioni cataloganti.

La Fim pensa che un’idea diversa di lavoro e d’impresa, aperta all’innovazione ed alle nuove tecnologie, non sia in contraddizione con le sue storiche sfide sindacali. Al contrario, ritiene che sia questo il modo per farle vivere al presente.

*Segretario generale Fim-Cisl

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