sabato 28 marzo 2020
La Scrittura va letta alla luce della Tradizione e del costante insegnamento della Chiesa. E nel Mosè con le braccia alzate possiamo cogliere il valore di un affidamento totale e consapevole
La vera forza della preghiera a Dio e il nemico da sconfiggere

Reuters

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Gentile direttore,

sono credente e seguo in questi giorni il santo Rosario trasmesso alle 18 dal Santuario di Lourdes. Ritengo estremamente lodevole offrire da parte di Tv2000 questo importante momento di preghiera. Vorrei però segnalare una nota leggermente stonata che consiste nel richiamare, come è avvenuto proprio in questi ultimi giorni, da parte dei sacerdoti del Santuario, il brano dell’Antico Testamento (Esodo 17, 8-16) che riguarda simbolicamente il grande valore della preghiera. Il testo presenta due elementi negativi, uno formale e uno sostanziale. 1) La preghiera viene presentata non come un atto di sincero desiderio dell’uomo di rivolgersi a Dio in un intenso ed affettuoso abbraccio spirituale, ma appare come un qualcosa che ha il sapore di un grottesco e ridicolo rito pagano (le braccia “alzate” e sorrette da due uomini). E questo è l’aspetto formale. 2) L’aspetto sostanziale e assai più grave di questa “luminosa preghiera” di Mosè, riguarda il fatto che Giosuè sconfigge l’esercito avversario e procede a un vero genocidio («...sconfisse Amalek e il suo popolo, passandoli poi a fil di spada»), che non mi pare si possa discostare molto dalle più recenti operazioni delle SS germaniche (c’è molta differenza tra essere uccisi trafitti da una spada o eliminati con un colpo di pistola alla nuca?). Mi chiedo come la Chiesa possa stigmatizzare (giustamente, ben inteso) e respingere con forza il l’idea di uccidere in nome di Dio e al contempo presentare (e qui esiste una chiara contraddizione) ai fedeli di qualsiasi livello culturale questo pochissimo edificante esempio di “efficacia” della preghiera. Non c’era in tutto l’Antico Testamento un esempio meno disastroso del valore della preghiera? Un cordiale saluto

Enzo Bonmassar, professore di Farmacologia Università di Roma Tor Vergata


Gentile professore,

proprio oggi in riunione di redazione ho sviluppato un ragionamento citando il “suo” brano biblico (Es 17,8-16) e il direttore, sorridendo, mi ha detto: ho un bel “Botta e Risposta” da affidarti... Eccomi perciò in dialogo con lei. Effettivamente, se ci limitassimo a una lettura testuale di quel brano, diversi aspetti potrebbero colpire negativamente la nostra sensibilità di uomini e donne del terzo millennio cristiano, nel cui Dna è ormai entrato il volto del Dio Padre accogliente e misericordioso rivelatosi in Gesù Cristo morto e Risorto. Ma di fronte alla Bibbia – come da sempre la Chiesa insegna, come il Concilio Vaticano II ha ribadito e come il magistero degli ultimi Pontefici ci ricorda costantemente – non ci si può fermare alla mera lettera. La Scrittura va letta alla luce della Tradizione e del costante insegnamento della Chiesa, che di ogni singolo passo ci aiutano a cogliere da un lato la molteplice e ancora non del tutto esplorata profondità, dall’altro la sua inscindibile connessione con l’intero corpus biblico. Mai come nel caso di questo brano, l’immagine della punta dell’icerberg giunge calzante, dato che la parte per così dire sommersa è enormemente maggiore rispetto alla superficie di una lettura testuale, che in alcuni casi potrebbe rivelarsi persino fuorviante. Schiere di esegeti vi hanno visto uno dei paradigmi più completi della preghiera cristiana, dove il piano verticale (cioè il rapporto creatura-Creatore) e quello orizzontale (il prolungamento della preghiera nella vita quotidiana) si fondono mirabilmente. La preghiera di Mosè è infatti autentica (altro che rito pagano, non dimentichi che egli aveva avuto esperienza “diretta” di Dio nel roveto ardente) e sostiene in maniera determinante la battaglia di Giosuè, ma non si sostituisce a essa. Non è dunque una bacchetta magica, anzi esattamente il contrario, cioè un affidamento pieno alla potenza di Dio, che in Gesù ci ha ricordato: «Senza di me non potete fare nulla». E allo stesso tempo quella preghiera chiede di essere tradotta nelle “battaglie” piccole o grandi di ogni giorno, utilizzando i doni che il Signore ci ha fatto: ad esempio l’intelligenza della scienza e la volontà di corrispondere liberamente al bene. Dirà san Giacomo, molti secoli dopo: «La fede senza le opere è morta».

Ecco perché, gentile Professore, quel brano letto secondo il metodo della lectio divina che ho provato in maniera artigianale a riassumerle (non sono infatti un biblista, ma solo un povero giornalista) non è affatto inopportuno, anzi si adatta perfettamente al tempo che stiamo vivendo. Le dirò di più: a mio avviso è stato tradotto proprio ieri da Francesco con il suo momento di preghiera sul sagrato della Basilica di San Pietro. Anche il Papa, novello Mosè, dal colle Vaticano ha elevato le sue braccia in preghiera verso il Dio di Gesù Cristo presente e vivo nella particola consacrata. E lo ha fatto anche per sostenere i tanti Giosuè impegnati in questo momento sul “campo di battaglia” delle corsie degli ospedali e degli altri ambiti di lotta al coronavirus. La sua preghiera li sostiene e li incoraggia. Mentre a loro volta le sue braccia vengono tenute salde dagli Aronne a dai Cur, cioè dalle nostre preghiere unite alle sue. E così, tutti insieme, confidiamo che il nemico (in questo caso il Covid-19) sia sconfitto e “passato a fil di spada” al “tramonto” di questo scontro purtroppo non meno cruento (il numero crescente di morti lo testimonia) di quella battaglia.

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