martedì 2 dicembre 2014
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Come Pietro e Andrea. Uniti dal sangue, trasformati dall’incontro con Cristo in «fratelli nelle fede e nella carità». Il significato ecumenico del viaggio del Papa in Turchia è nell’abbraccio di pace tra Francesco e Bartolomeo, è nel bacio benedicente del Patriarca ortodosso al vescovo di Roma. È nell’impegno comune, ribadito una volta di più, a intensificare gli sforzi per promuovere la piena unità. È, soprattutto, nelle parole con cui il Papa ha sottolineato che l’unica cosa che la Chiesa cattolica desidera è la comunione con le Chiese ortodosse. E per arrivarci, per raggiungerla, «non intende imporre alcuna condizione, se non la professione della fede comune», pronta a una ricerca condivisa «alla luce della Scrittura e dell’esperienza del primo millennio» delle modalità con cui «garantire la necessaria unità» nelle circostanze di oggi. Un passaggio che non significa affatto resa o sottomissione, se non ai tempi e alla volontà dello Spirito, ma che invece riassume il cammino di riconciliazione già percorso, così come i nodi che restano ancora da sciogliere.Francesco sulle orme di Giovanni Paolo II verrebbe voglia di dire, e della Ut unum sint l’enciclica in cui papa Wojtyla invitava al dialogo fraterno per «trovare una forma di esercizio» del primato petrino che, «pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra a una situazione nuova». Bergoglio come l’allora arcivescovo Joseph Ratzinger che nella celebre conferenza tenuta a Graz nel 1976, sosteneva che «Roma non deve richiedere dall’Oriente, riguardo alla dottrina del primato più di quanto è stato formulato e vissuto nel primo millennio»...Riconoscere cioè nel Papa, secondo le parole del patriarca Atenagora, il successore di san Pietro, il più stimato tra tutti, colui che presiede nella carità. Non a caso, nei discorsi della tre giorni in Turchia è risuonato più volte l’eco del lavoro svolto dalla Commissione mista internazionale che da 35 anni mette in dialogo teologi cattolici e ortodossi sulle questioni che hanno segnato le divisioni tra le Chiese sorelle. Lavoro che nel 2007 ha portato, ma in assenza dei rappresentanti del Patriarcato di Mosca, all’approvazione del Documento di Ravenna sul rapporto tra autorità e conciliarità.Un testo importante in cui si sottolinea che «Roma in quanto Chiesa che presiede nella carità secondo l’espressione di sant’Ignazio di Antiochia, occupava il primo posto nella taxis e che il vescovo di Roma è pertanto il protos tra i patriarchi». Dove con taxis si intende l’ordinamento della Chiesa mentre protos significa primo, anche se ancora si dibatte su quali siano le prerogative di tale primato. «Che cosa dobbiamo aspettare, che i teologi si mettano d’accordo?», si è provocatoriamente domandato il Papa sull’aereo che lo riportava da Istanbul a Roma. La risposta è nella frase detta da Atenagora a Paolo VI: «Noi andiamo avanti da soli e mettiamo tutti i teologi in un’isola, che pensino». Perché la profezia anticipa i tempi della ragione e il coraggio dall’amore sa andare oltre la meticolosità dello studio, è più vincolante del pur necessario rigore accademico.A cinquant’anni dallo storico abbraccio tra Paolo VI ed Atenagora, Francesco e Bartolomeo lo hanno ribadito con il vocabolario dei gesti, con l’alfabeto del cuore. Senza mascherare le difficoltà da superare, ma nella consapevolezza che tanta strada è stata percorsa, che esiste un metodo consolidato. Per la Chiesa cattolica è la scelta ecumenica fatta dal Concilio Vaticano II e dall’Unitatis redintegratio, il decreto che è tra i suoi frutti più significativi. Per Costantinopoli è la consuetudine, ribadita una volta ancora, degli incontri con il vescovo di Roma e che dall’elezione di Francesco sembrano aver tratto nuovo slancio. Un impulso più che mai necessario nella preparazione e poi nello svolgimento del Sinodo panortodosso, che nel 2016 giocoforza metterà a tema anche l’esercizio della sinodalità, alla luce del ruolo di primus inter pares tra i cristiani d’Oriente attribuito al patriarca ecumenico, ma oggi da più parti messo in discussione. Come si capisce dunque per Francesco e Bartolomeo, o meglio per Pietro e Andrea, le sfide ecumeniche non mancano. Sono chiamati ad affrontarle con la forza che viene dalla comune appartenenza a Cristo, trasformati dall’incontro con il Signore in fratelli nella fede e nella carità. O, meglio, per dirla con il Papa, in «fratelli nella speranza».
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