La politica si rianima se si cura di chi fa fatica
mercoledì 7 dicembre 2016

Il problema principale del nostro Paese, oggi, non è quello di resuscitare la sinistra (come ha sostenuto Massimo Cacciari in un’intervista a 'Repubblica' di martedì 22 novembre), la destra (come tenta inutilmente di fare Silvio Berlusconi) o il centro (ormai senza speranza). E neppure quello di approvare o respingere una riforma della Costituzione per legittimare uno o più contendenti. Il problema principale, in un Paese che non cresce (e non solo economicamente), è quello di 'rianimare' la politica, nel senso di restituirle un’anima umana.

Il 'processo di degrado' che ha investito il Paese deriva infatti da una parte dall’incapacità della politica di prestare attenzione al buon senso e alle istanze della gente normale; e dall’altra dalla distanza che si è venuta a creare tra classe politica e società civile anche a causa della cosiddetta disintermediazione dei corpi intermedi e in particolare della destrutturazione dei partiti. Se è vero che la sinistra ha perso l’anima quando si è messa a inseguire il liberismo economico, è ancor più vero che tutta la politica ha perso la testa e il cuore quando si è accodata ai più forti dimenticandosi dei meno forti e dei più deboli (che sono la maggioranza) senza garantire la necessaria sintesi dei bisogni e degli interessi (il bene comune) che è la principale se non la sola ragione della sua esistenza.

Il declino del Paese è cominciato perché 'nessuno' si è mai preoccupato di ripensare il sistema sociale e quello economico e produttivo in senso veramente democratico, inclusivo e distributivo. E la crisi della rappresentanza politica è dovuta al fatto che 'nessuno' si è mai preoccupato di proporre un’idea politica di «coesione inclusiva» di grande respiro. È dall’inizio degli anni 90 del Novecento che i ceti meno abbienti scontano un aumento delle disuguaglianze rispetto a quelli più forti, che il lavoro accusa un crollo dei redditi, che le famiglie soffrono per l’aumento della tassazione e del costo dei servizi soprattutto a livello locale, e che l’ascensore sociale s’è fermato. In Italia ci sono 4,5 milioni di persone che vivono in condizioni di povertà assoluta e più di dieci milioni di individui che stanno al limite di quella soglia. Stiamo parlando dei 'poveri relativi', ovvero 8,3 milioni di persone; di 3,5 milioni di lavoratori precari e 3,4 milioni di disoccupati. Milioni di italiani a cui non sono garantite le condizioni economiche e sociali che consentono il pieno sviluppo della personalità umana, come afferma l’articolo 3 della Costituzione. A cui si aggiungono 2,5 milioni di persone che hanno rinunciato alle cure mediche per mancanza di soldi e 2 milioni di giovani senza lavoro né prospettive.

Elettori che non trovano rappresentanza stabile. In queste condizioni è 'fisiologico' che monti l’antipolitica. Ma il populismo non fa altro che rappresentare – talvolta in maniera inappropriata – chi si sente escluso e abbandonato dalla politica. Prima, tali istanze erano rappresentate dai partiti di massa. Mentre oggi l’ex ceto medio, impoverito a causa di molte speculazioni, si sente abbandonato. E se la prima reazione all’aumentare del disagio è la delusione e il distacco che si manifestano con l’astensione e con il voto di protesta che si sposta da una parte e dall’altra; e la seconda è il voto che si orienta verso chi si oppone al sistema politico; la terza è la deriva verso un sistema autoritario. Per evitare questa prospettiva non serve fare un’opposizione velleitaria e gattopardesca ai 'poteri forti', né tantomeno rincorrere l’anti politica su terreno della lotta alle caste. Semplicemente, ma non è cosa facile né istantanea, bisogna rianimare la politica, facendosi carico dei bisogni dei ceti in sofferenza e facendo sintesi delle diverse istanze, separando quelle giuste da quelle ingiuste e quelle urgenti da quelle rimandabili. E per fare questo occorre tornare sul territorio, tra la gente che è stufa di votare turandosi il naso.

Non si possono abbandonare le periferie (che sono geografiche ed esistenziali, come ci è stato autorevolmente ricordato) al disagio, senza una speranza di riscatto. Soprattutto occorre tornare a fare discorsi aderenti alla realtà seguendo il criterio della verità per restituire credibilità alla politica. Senza vendere fumo e fomentare conflittualità per conquistare consensi. Senza più destabilizzare le relazioni personali e collettive, dividere il Paese tra buoni e cattivi, per non parlare dei problemi veri delle persone e delle possibili soluzioni per risolverli. È tempo, piuttosto, di ri-tessere la trama e l’ordito di un tessuto sociale ridotto a brandelli, di ri-unire le forze piuttosto che dividere le tifoserie, con obiettivi prioritari chiari: creare e distribuire il lavoro; restituire dignità e capacità di spesa alle famiglie alle quali sono state sottratte in molti modi e con continue disattenzioni; ripensare il Welfare privilegiando chi ha più bisogno, la natalità, la cura dei minori, degli anziani e delle persone non autosufficienti e con disagi; garantire un fisco equo e progressivo senza spazi di evasione; ridefinire le politiche di spesa privilegiando gli investimenti pubblici, in modo da generare effetti moltiplicativi dell’occupazione, del reddito e della domanda privata per riequilibrare nel medio periodo il rapporto debito/Pil.

Insomma occorre un disegno politico unitario e coerente che abbia come perno i bisogni reali delle persone, in particolare di quelli che Giorgio La Pira definiva «la povera gente», e una classe politica seria e competente in grado di realizzarlo. Sul primo punto i cattolici hanno sempre dato il loro contributo, ma non basta. Oggi occorre una iniziativa di mobilitazione collettiva che consenta di far camminare idee e proposte.

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