I social e la parte più vera di questa nostra vita
sabato 21 gennaio 2017

Guardi sui social il video del salvataggio dei primi superstiti dell’albergo di Rigopiano e il cuore ti si stringe. L’emozione è grande. Quasi non ci speravamo più di vederli vivi. Persino le telecamere, col passare delle ore, avevano man mano spostato la loro (e la nostra) attenzione sulle polemiche, sulle dichiarazioni e sui dibattiti. Bisognava attendere. Dovevamo attendere l’arrivo e il lavoro dei soccorritori. Per i nostri genitori non sarebbe stato un problema. Loro sapevano attendere. Sempre. Per mille cose e ogni giorno. Noi invece non siamo (quasi) più capaci di aspettare.

Pretendiamo che la vita sia un susseguirsi di 'subito'. Che tutto sia in diretta e in tempo reale. Ogni volta che c’è un tragedia, è inevitabile che la mente corra a Vermicino. A quel 1981, quando l’Italia scoprì cosa significava vivere in diretta tv un fatto così tragico. Da allora è cambiato tutto. Ovunque, ci sono centinaia di telecamere: da quelle dei sempre più numerosi canali tv a quelle dei telefonini. Tranne che, per ore, davanti e soprattutto dentro l’hotel Rigopiano. Lì, a lungo, non c’era nessuno a filmare.

Non c’era nessuno che twittava, postava su Facebook o faceva dirette social. Era partito solo un WhatsApp, da uno dei due primi sopravvissuti. Poi più niente. Solo il silenzio, audio e video. A tutti gli altri immersi ogni giorno nella tecnologia e al caldo nelle loro case, quel silenzio sembrava 'inaccettabile'. Di più: 'impossibile'. Perché significava, appunto, l’impossibilità da parte degli eventuali superstiti rimasti nell’hotel di compiere anche quelli che sono ormai diventati i più elementari e quotidiani gesti di comunicazione, come mandare un sms o fare una telefonata dal cellulare per chiedere aiuto.

E perché, in fondo, significava anche l’impossibilità di saziare la fame del «pubblico» di sapere e di vedere. Ma soprattutto perché quella mancanza di immagini, frasi e suoni faceva intravedere una tragedia enorme. Un «black out audio e video» che soprattutto i social non potevano tollerare, visto che la loro ragione di vita è quella di riempirsi ogni istante e vorticosamente di parole, immagini e suoni. Così, il silenzio dei superstiti dell’hotel Rigopiano è stato man mano sovrastato dal chiacchiericcio digitale di tutti gli altri.

Da migliaia e migliaia di voci e di foto (spesso nemmeno pertitenti) che, con diversi registri, hanno creato una sorta di mantra collettivo ed emotivo. Tanta era la frenesia di sapere e di far sapere che perfino i nomi dei dispersi sono stati divulgati in Rete prima che le famiglie fossero state avvertite. Poi, finalmente, sono arrivati i soccorsi dei Vigili del fuoco. Col loro coraggio, il loro carico d’amore, ma anche con i loro smartphone con la batteria carica e le loro telecamere. Perché anche quando salvi delle vite, se non filmi ciò che fai e non lo posti sui social il tuo lavoro sembra valere meno.

Ormai, da casa se non la vediamo, non la clicchiamo e non la commentiamo qualunque cosa appare un po’ meno reale. Incompleta. Ma è un errore enorme. Perché anche in questa storia - dove si mescolano tragedia e speranza, dolore per i morti e felicità per i salvati - c’è qualcosa di unico e prezioso che nessuna telecamera e nessun social potrà mai catturare e raccontare davvero. Sono gli sguardi, i dialoghi, gli abbracci, le emozioni, le preghiere e le lacrime che hanno scandito quelle ore che sembravano infinite passate dai sopravvissuti tra le macerie. Altro che «silenzio» o «black out». Quella era, ed è, la parte più vera della vita.

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