La pace è fragile ed è riposta nelle nostre mani
giovedì 15 novembre 2018

In questi ultimi giorni ho riflettuto molto sul tempo che stiamo vivendo. Siamo circondati da incertezza, toni sopra le righe, slogan urlati. Al di là delle idee di ognuno, il momento politico attuale è delicatissimo, ma è il cuore delle persone il vero campo di battaglia. Alcuni amici mi hanno raccontato di essere stati testimoni di episodi di intolleranza, di chiusura, in luoghi normali: un autobus, la strada, un incontro di giovani.

C’è tanta rabbia in giro, non siamo capaci di cogliere le sfumature della realtà, puntiamo il dito, cerchiamo un nemico facile. In fondo tutto questo ci rassicura, ci fa stare tranquilli nelle nostre certezze, ma alla fine ci blocca. Mai come oggi, ho capito che il male che vive dentro e fuori di noi può vincere. Il male che passa per bene, che può andare in prima pagina e affascinare. Il male che ti fa credere che ci siano condottieri capaci di risolvere ogni problema. Ma il male, cari amici, resta male e resta sulla coscienza di chi lo causa e di chi lo alimenta.

E questo riguarda ognuno di noi. Mi chiedo in momenti così particolari che ruolo possiamo svolgere noi che, senza sentirci migliori degli altri, da tanto tempo stiamo provando a vivere la bontà come scelta del cuore e dell’intelligenza. Abbiamo scelto, anche tra le lacrime, di essere una porta aperta, per poter fasciare le mille situazioni di fatica, di disagio, di solitudine che ci hanno interpellato.

Quante difficoltà, quanta frustrazione, ma anche quanto dolore alleviato. Non ho mai pensato che accogliere lo straniero, dare da mangiare all’affamato, essere vicino a un carcerato fossero cose semplici da fare. Ho toccato con mano l’inadeguatezza, la paura, ma anche l’istinto della natura umana che giudica a prescindere, rincorre il proprio io, non vuole scocciature. No, non è mai stato facile, ma su questo terreno ci giochiamo la vita. Non lo dico io, lo dice Gesù quando con parole semplici e meravigliose ci fa capire che cos’è per lui l’amore.

Non un sorriso, non una pacca sulle spalle, ma un fatto concreto. «Ero straniero..., avevo fame..., ero carcerato...». Dovremmo ricordarcelo sempre quando anche ragioni valide ci portano a pensare il contrario, a chiuderci, a dire basta. Penso alle parole dure sull’immigrazione che sono sulla bocca di tanti miei concittadini. Ci siamo dimenticati in poco tempo di essere stati a nostra volta un popolo di migranti, sparsi in ogni angolo del mondo. Ma voglio rimanere all’oggi. Non siamo più capaci di commuoverci di fronte a storie terribili, alla disperazione di persone come noi in cerca di un futuro diverso. Mi si dirà: c’è chi delinque, chi non merita di essere accolto, chi non apprezza la nostra cultura. Verissimo. Proprio per questo, noi crediamo nell’accoglienza che passa dalle regole che tutelino chi accoglie e chi è accolto. L’esperienza dell’Arsenale ci ha insegnato che è possibile! È possibile asciugare una lacrima, è possibile vivere l’amicizia con chi è diverso da te, condividere il dolore.

Ma al tempo stesso, per i nostri amici accolti è possibile anche imparare l’italiano, conoscere i valori della Costituzione, coltivare il rispetto reciproco, la parità tra uomo e donna. L’accoglienza non può essere improvvisata. Ha senso solo se amata, pensata, costruita insieme, governata. Ma è ciò che deve continuare a contraddistinguerci. Un Paese che costruisce muri è un Paese che soffoca, che non ha respiro, che chiude mente e cuore. Questa è una responsabilità di tutti. Chi non l’accetta si mette fuori da solo e rischia di creare i presupposti per un futuro terribile, di odio, di conflitto. Vorrei in modo semplice che ognuno di noi potesse testimoniare questo stile, per portare dialogo dove c’è contrapposizione, pacatezza dove c’è rabbia, braccia aperte dove ci sono pugni chiusi, disponibilità dove c’è insofferenza.

Perché il mondo può cambiare veramente. Noi lo abbiamo visto nella riconversione dell’arsenale, una fabbrica di morte trasformata in Arsenale della Pace. La fabbrica di armi della Prima guerra mondiale che dopo cento anni è diventata monito e testimonianza. Il corso della storia può prendere direzioni nuove, ma solo se ognuno di noi fa la propria parte. Per questo abbiamo deciso di dedicare tutto il mese di novembre, qui all’Arsenale, alla memoria della Grande Guerra, nel centenario della sua conclusione. È un modo per educarci e ricordare che la storia può ripetersi e che la pace è fragile, ma è nelle nostre mani.

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