sabato 1 settembre 2018
La guerra favorisce i contagi. La speranza viene dai vaccini (e dalla diplomazia)
Un operatore dell’Organizzazione mondiale della sanità in Congo mostra un vaccino per ebola

Un operatore dell’Organizzazione mondiale della sanità in Congo mostra un vaccino per ebola

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Il virus ebola torna a far paura. Molta paura. L’ottimismo con cui, in questi mesi, gli operatori umanitari e i tecnici dell’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) hanno gestito le nuove epidemie di febbre emorragica nella Repubblica democratica del Congo comincia a vacillare. Il numero dei casi registrati a partire dallo scorso maggio (111 casi in totale, di cui 78 morti) è, certo, ancora molto contenuto rispetto al drammatico bilancio della pandemia che tra il 2014 e il 2016 colpì Liberia, Guinea e Sierra Leone, quando le vite umane stroncate da ebola furono più di 11 mila. Il 'virus maledetto', però, oggi ha un nuovo tremendo alleato: la guerra.

Il primo agosto il Governo congolese ha ufficializzato una nuova epidemia di ebola nella provincia Nord orientale di Kivu. La notizia è arrivata appena una settimana dopo aver annunciato la fine di quella che ha causato 33 morti nella provincia di Equatore. Questa volta si tratta di un focolaio davvero pericoloso non solo perché riguarda una zona molto popolata ma perché è un territorio straziato da un durissimo scontro armato tra più di 100 bande ribelli e per questo – a dichiaralo è stata la stessa OMS – ad 'altissimo rischio sicurezza'. Le milizie islamiche ugandesi, il gruppo più violento e potente dell’area a nord di Oicha, adesso combattono la loro guerra impedendo, volontariamente, con le armi, la fornitura dei medicinali e l’accesso della popolazione al vaccino. Ciò che preoccupa è che proprio a Oicha, scenario di violenti omicidi, rapimenti, stupri e attacchi incendiari, è stato registrato un grave caso di contagio tra gli operatori sanitari. La vittima è un medico che, molto probabilmente, è stato infettato dalla moglie di ritorno dalla vicina città di Beni. Certo, non è la prima volta che succede: i casi di contagio registrati tra il personale sanitario sin dall’inizio dell’epidemia sono 14, tra cui un morto. Ma che ciò avvenga in una 'zona rossa' come quella di Oicha lascia pensare che la risposta all’emergenza possa indebolirsi ogni giorno di più e che, quindi, la situazione possa precipitare. La provincia di Kivu, con i suoi 8 milioni di abitanti, rischia così di diventare una bomba infettiva ad altissimo rischio per tutta la nazione. L’intenso flusso di rifugiati che scappano alla guerra varcando il confine del Congo mette inoltre a rischio la salute di popolazioni confinanti come quelle di Uganda, Ruanda, Burundi e Tanzania.

Il ricordo dello sterminio causato da ebola quattro anni fa in Liberia, Guinea e Sierra Leone è ancora fresco. Impossibile dimenticare i corpi insaccati e ammassati a migliaia sui camion, le fosse comuni, la disperazione di uomini e donne costretti alla quarantena preventiva in ghetti delimitati dal filo spinato. La speranza che quell’orrore non si ripeta più sembra però oggi essere appesa al filo sottile della diplomazia internazionale alle prese con l’irragionevolezza della guerra. Unica alleata del personale umanitario, governativo e non, impegnato in questa impresa è la scienza. Il vaccino raccomandato dall’OMS sin da quando i primi focolai dell’epidemia sono stati individuati, a maggio, nelle aree rurali di Bikoro e Iboko, e Mbandaka, si chiama rVsv Zebov e – a dirlo sono i dati – funziona. Le dosi di arrivate nella capitale Kinshasa il 20 agosto per essere poi trasportate a Beni, nel cuore della 'zona rossa' sono 7160. Altre 2160 verranno consegnate nei prossimi giorni. Se verranno mai utilizzate dipenderà solo dall’evoluzione della guerriglia.

Originariamente sviluppato dalla Public Health Agency del Canada e poi passato alla statunitense NewLink Genetics, prima che la Merck & Co. lo assumesse nel 2014, il vaccino (al momento adoperato solo per 'uso compassionevole' perché non ha ancora ottenuto l’autorizzazione all’immissione in commercio che dovrebbe avvenire nel 2019), è stato fino ad oggi somministrato secondo un protocollo che gli addetti ai lavori chiamano 'ad anello'. In pratica, identificati tutti i nuovi pazienti colpiti da ebola, lo rVsv Zebov viene iniettato a chiunque abbia avuto un contatto con loro (familiari, vicini di casa, colleghi, amici) e, ancora, ai contatti di questi ultimi. Le difficoltà logistiche causate dall’attuale 'stato di guerra' impongono ovviamente anche una rivisitazione dei protocolli per la somministrazione del vaccino. Un gruppo di esperti affronterà l’argomento nella prossima riunione del SAGE (Strategic Advisory Group of Expert) che si terrà al OMS di Ginevra il prossimo 23 ottobre.

L'innovazione medico-scientifica offre però anche alternative allo rVsv Zebov. Lo scorso 6 giugno il comitato etico del governo congolese ha approvato l’utilizzo di altri 5 farmaci anti ebola, di cui 4 già disponibili nel Paese: ZMapp, GS-5734, un cocktail di anticorpi della Regeneron e uno della MedImmune (mAb114.4). All’efficacia dei primi due è dedicato un servizio della rivista Nature. Sviluppato dalla californiana Mapp Biopharmaceutical, ZMapp sembra offrire buone, ma non eccezionali, percentuali di sopravvivenza. Il suo utilizzo, però, non è proprio immediato perché, oltre ad essere refrigerato, va somministrato per endovena con un’infusione che richiede molte ore. Interessante, a detta degli esperti, è anche l’antivirale GS-5734, noto come Remdesivir, a cui si deve il primo caso documentato di un bambino sopravvissuto a ebola, aspetto affatto trascurabile dal punto di vista farmacologico perché il 'salvavita' rVsv Zebov non viene somministrato a chi ha meno di 6 anni e che, purtroppo, il virus si trasmette anche per mezzo del latte materno. «Ebola è un virus giovane – ricorda Claudio Viscoli, infettivologo dell’Università di Genova – conosciuto dalla comunità scientifica solo dal 1976, e non da secoli come quello della febbre gialla. Eppure la ricerca è, straordinariamente, già riuscita ad affinare le armi giuste per combatterla». Se solo non ci fosse una guerra che usa l’esposizione al virus come arma, ebola oggi non farebbe più tanta paura.

Il 'virus maledetto', però, non ha bisogno solo di pace e progresso scientifico per essere definitivamente sconfitto. Ciò che in questi anni lo ha reso così forte e pericoloso è la drammatica povertà di ospedali al collasso, dove non mancano solo i posti letto ma, spesso, anche elettricità, guanti, bende e siringhe. Complici delle epidemie, poi, sono le credenze e le abitudini popolari di uomini e donne abituati a salutarsi stringendosi in un abbraccio. Il contagio avviene tramite fluidi corporei come sangue, saliva, mucose e sudore: basta anche una sola stretta di mano, portata poi inconsapevolmente alla bocca, per contrarre l’infezione. Ma nonostante gli avvertimenti del personale sanitario, è difficile scoraggiare quella gente dall’accarezzare i propri malati, dall’abbracciare i propri morti. La cronaca racconta di pazienti ricoverati e poi 'rapiti' dai familiari per essere portati in chiesa. L’importanza del contatto umano per quella gente la conosce bene anche Stefano Marongiu, l’operatore italiano di Emergency, oggi infermiere all’Istituto Nazionale delle Malattie Infettive 'Lazzaro Spallanzani' di Roma, sopravvissuto a ebola nel 2015. «La vicinanza umana – racconta – è ciò che anch’io ho sempre cercato di non far mai mancare alle persone che curavo quando ero in Sierra Leone. Anche se tra me e loro c’era la plastica della tuta di protezione».

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