lunedì 9 dicembre 2013
Siamo tornati a parlare e straparlare di sistemi elettorali e, manco a dirlo, di «complotti» anti-bipolaristi.
di Marco Tarquinio
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Siamo tornati a parlare e straparlare di sistemi elettorali e, manco a dirlo, di «complotti» anti-bipolaristi. Tutto questo perché la Corte costituzionale – con modalità che hanno lasciato perplessi diversi osservatori (e noi tra questi), ma secondo uno “spirito costituzionale” respirato e condiviso dalla gran parte dei cittadini – ha modificato la sostanza della indecente legge elettorale chiamata Porcellum, e ha di nuovo consigliato al Parlamento di intervenire sulla materia. A partire da due punti fermi:1) nessun eventuale “premio di governo” dovrà essere attribuito a una maggioranza relativa purchessia (per ottenerlo bisognerebbe, insomma, raggiungere una ragionevole soglia minima di consensi); 2) non potrà più essere riproposto il nefasto meccanismo delle “liste bloccate” (nelle quali non conta la preferenza degli elettori, ma quella dei capipartito che decidono l’ordine di presentazione dei candidati). Chi straparla e accusa, a nostro avviso, fa perciò la figura di colui che quando il dito (la Consulta) indica la Luna (una legge elettorale cattiva e dannosa) si concentra sul dito. E, come si sa, non è una bella figura. L’abbiamo già scritto e titolato: la pronuncia della Corte è il segno di una svolta secca, non di un’apocalisse anti-bipolarista. È però necessario che quella decisione, che ha lasciato in piedi una legge proporzionale corretta da “soglie di sbarramento” anti-frazionismo, ma chiaramente insufficiente a garantire la governabilità, diventi la premessa per una riforma sensata e complessiva che risolva questo cruciale problema e ripristini un rapporto finalmente corretto tra cittadini e parlamentari. Tutto questo è necessario, è possibile, e però – alla luce dell’esperienza degli ultimi anni – non si può dire che sia probabile. I signori del “pantano” – così lo ha chiamato ieri Matteo Renzi – sono potenti e disperatamente determinati. Ed è un fatto che l’ostruzionismo di leader e leaderini vecchi, nuovi e seminuovi – tutti, nessuno escluso e nel grillino M5S persino più di altri – ha sinora impedito qualsiasi passo avanti, tanto che siamo autorizzati a pensare che lorsignori – checché dicano e per quante proteste inscenino – stiano ancora coltivando l’illusione di mantenere un ferreo potere di selezione sulla classe politico-parlamentare, lo stesso potere del quale hanno goduto negli anni della cosiddetta Seconda Repubblica. Se fosse davvero così, il calcolo sarebbe sbagliato e autolesionista. Se “loro” non cambieranno le regole, saranno le regole a cambiare “loro”. E avverrà persino con queste regole, che sono quelle lasciate in piedi dall’intervento della Consulta. È già in parte accaduto con il voto gelido (eppure rovente) del 24-25 febbraio scorsi. E in questi mesi il clima sociale e politico non si è certo addolcito, anzi si è fatto ancor più tempestoso.L’Italia rischia di restare prigioniera dell’ottuso gioco d’interdizione di minoranze velleitarie, rissose e persino più o meno scopertamente antidemocratiche. E questo anche se nessuna difesa a oltranza dello status quo, è più sensata e utile al Paese. A causa delle manomissioni della Carta del 1948 e delle evoluzioni – chiamiamole così – della “Costituzione materiale”, nessuno (o quasi) di quanti agiscono in cruciali ruoli istituzionali esercita più esattamente i ruoli e i poteri che la Costituzione stessa gli attribuisce: non il Parlamento (formalmente ancora centrale), non il Governo, non la Presidenza della Repubblica, non le Regioni, non la Magistratura (Consulta compresa)... E il potere dell’alta burocrazia, nella confusione e per la debolezza altrui, è cresciuto a dismisura. Di questo passo, se non ci verrà ridato un sobrio ed efficace assetto istituzionale e di governo servito da una legge elettorale democratica e seria, il distacco tra Paese reale e Paese legale diventerà una voragine e si rischierà una paralisi disastrosa. Ci vogliono, insomma, nuove regole del voto. Ma non soltanto, perché è l’ordinamento della Repubblica che va rimesso in sesto. Si riparla – ieri lo ha fatto Angelino Alfano – di «sindaco d’Italia», evocando il sistema elettorale e di governo dei Comuni, l’unica normativa che da vent’anni assicura rappresentanza democratica (si votano liste concorrenti o alleate, e si può esprimere la propria preferenza tra i candidati) e governabilità (si sceglie comunque il capo dell’esecutivo, se necessario in due turni). Non è l’unica via, ma è una via praticabile. Le forze sane e i politici lucidi – e ce ne sono – scelgano e procedano, guardando alla mèta, non solo al dito che la indica. Il tempo di decidere è scaduto da un pezzo.
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